giovedì 31 maggio 2012

Cosa state facendo al mio paese? di PierGiorgio Gawronski, Il Fatto Quotidiano

L’economia italiana sanguina copiosamente. L’emorragia di redditi e risparmi passa dagli spread, dalla caduta della domanda interna e del Pil, dal deficit corrente della Bilancia dei Pagamenti. E provoca fughe di capitalirapido impoverimento sono l’aumento della pressione fiscale (stimo un 47% a fine anno), della disoccupazione (il 22% della forza lavoro, scoraggiati e cassintegrati inclusi), dei debiti privati e pubblici, la caduta dei valori di borsa, immobiliari, delle pensioni integrative,l’allungamento dei tempi di pagamento, la disperazione di molti imprenditori, le file alle mense Caritas. (depositi bancari) e di capitale umano (giovani laureati). Alcune conseguenze del 
L’emorragia può essere così quantificata.
·         La spesa pubblica per interessi aumenta al ritmo di circa 10 miliardi all’anno. A regime, gli spread attuali causeranno un aggravio di spesa pubblica di circa 70-80 miliardi l’anno (sottraendo 40 bp dovuti al “flight to quality”). Intanto il rapporto debito/Pil cresce del 3% l’anno.
·         La spesa per interessi delle banche e delle grandi imprese che si finanziano direttamente sui mercati sta aumentando per importi comparabili.
·         Il costo del flight to quality per le famiglie italiane è difficile da calcolare: acquistano titoli pubblici tedeschi che rendono niente (ben sotto l’inflazione) per ridurre l’esposizione al rischio Italia. I tedeschi vendono questi titoli a prezzi altissimi e mettono i soldi in banca al 3%: loro non rischiano.
·         La borsa italiana da quando il governo tecnico si è insediato a metà novembre 2011, ha “bruciato” 41 mld.
·         Se i prezzi degli immobili nel 2012 caleranno, come credo, del 4% la perdita di ricchezza sarà di circa 250 mld.
·         La disoccupazione dei fattori produttivi – causata dalla debolezza della domanda – fa perdere circa 150 mld. ogni anno. La recessione di quest’anno causerà un’ulteriore perdita di circa 30 mld.
·         Il deficit commerciale – anche se compresso dalla depressione – continua a incrementare i debiti esteri di circa 15 mld l’anno. 
L’emorragia sta inoltre causando danni permanenti, strutturali, all’organismo, alla capacità produttiva del paese: danneggiando le possibilità di ripresa futura.
Intanto, si riducono viepiù le opzioni disponibili. Ad esempio, l’Italia sta perdendo gradualmente potere contrattuale in Europa, perché:
·         concede alla Germania e alla Bce quello che vogliono senza chiedere né ottenere alcunché in cambio;
·         la manovra di inizio d’anno sulla liquidità della Bce (LTRO) favorisce l’isolamento finanziario dei paesi dell’Eurozona, perciò la Germania è sempre meno preoccupata delle sorti degli altri. Leggetevi Tabellini.
Gli stessi fenomeni si registrano con diverse intensità in molti paesi europei: crescono i rancori e le recriminazioni per una crisi artificiale. I popoli europei si trovano di fronte allo stesso dilemma degli elettori greci. Vogliono restare nell’Eurozona, ma non che l’Euro resti il meccanismo perverso che è: crea gli shock asimmetrici (capitali tedeschi -> bolla immobiliare in Spagna), poi blocca ogni possibile soluzione alle crisi che genera: prestatore di ultima istanza, espansione monetaria, deficit spending, svalutazione, ecc.
Il panico, nelle ultime settimane, ha contagiato gli Eurocrati. Ne è nata (a parole) una mini svolta keynesiana tardiva e insufficiente. Monti ha proposto di spostare fuori bilancio alcune spese (deficit spending); Draghi, grandi opere infrastrutturali (ma si parla di qualche miliardo: importi ridicoli); la Bundesbank, di alzare i salari dei tedeschi. Tutte cose che chiedo da anni. Ma oramai non basta più. La crisi investe in pieno il sistema finanziario Europeo. A quando le prese d’atto?

Poveri commercianti, come soffrono...

I dati derivanti dagli "studi di settore" rivelano che i redditi dichiarati dai commercianti crescono un pochino, nonostante la crisi.
A benguardare, però, sembra più l'effetto delle "intimidazioni" congiunte tra Guardia di finanza e Agenzia delle entrate, che non "crescita" del giro d'affari. E tantomeno di una "più matura coscienza civica" da parte del grosso di questa categoria. Per rendersene conto basta guardare il reddito dichiarato dai gioielieri, in un'epoca in cui la "corsa all'oro" attraversa le nostre città... con una marea di negozi che "comprano" il metallo che da sempre fa da bene-rifugio.
Persino il Corriere della sera si mostra perpleso e un tantino scandalizzato.


Bar, alberghi e gioiellieri:  redditi sotto 17 mila euro
Studi di settore: per la prima volta in un anno di crisi salgono, anche se soltanto dell’1%
ROMA — I redditi medi dichiarati nel 2011 dai quasi 3,5 milioni di contribuenti soggetti agli studi di settore sono aumentati dell’1%, ma la spinta all’adeguamento della dichiarazione dei compensi è arrivata prevalentemente dal basso, cioè da chi guadagna, o dice di guadagnare di meno. Tra il 2010 ed il 2009, visto che le dichiarazioni 2011 riguardano l’anno precedente, gli aumenti maggiori delle somme dichiarate si sono registrate per gli istituti di bellezza, i negozi di abbigliamento e di scarpe, i pellicciai, ma soprattutto per i bar, gli alberghi ed i ristoranti. Qualcosa dunque si muove, anche se in molti settori economici i redditi medi dichiarati al fisco restano poco verosimili.
Gli istituti di bellezza, ad esempio, hanno dichiarato al fisco un reddito medio di 6.500 euro, che è sempre qualcosa in più dei 5.300 euro del 2009, ma sembra ancora poco aderente alla realtà. I negozi di abbigliamento e scarpe, nel 2011, hanno dichiarato guadagni medi di 8.600 euro, contro i 7.700 dell’anno precedente, mentre per i pellicciai il reddito medio dichiarato negli studi di settore è passato da 8.800 a 12.200 euro. Niente a che vedere con le performance di bar, ristoranti e alberghi che, nonostante l’aggravamento della crisi, hanno adeguato all’insù, e di parecchio, la propria denuncia dei redditi. Nei servizi di ristorazione il reddito medio tra il 2009 ed il 2010 è passato da 12.900 a 14.300 euro, per i bar e le gelaterie è salito da 15.800 a 16.800 euro, mentre per gli alberghi si segnala un aumento spettacolare: da 11.900 a 14.700 euro di media. La maggior propensione di ristoratori e albergatori a pagare le tasse è confermata anche dai dati sulle dichiarazioni delle società di persone che per il settore di alberghi e ristoranti è cresciuto in media del 2,9% (contro una media dello 0,41%). Tornando agli studi di settore, appaiono in crescita anche i guadagni denunciati dalle gioiellerie (da 16 a 17 mila euro) e dai meccanici (da 24.300 a 24.700 euro), ma dichiarano di più anche i notai, che sono di gran lunga la categoria di contribuenti più ricca, con 318.200 euro denunciati nel 2010, contro i 310.800 dell’anno prima.
Al contrario, diminuiscono i redditi medi di commercialisti ed esperti contabili (da 65.900 a 61.300 euro) e soprattutto degli avvocati (da 66.100 a 57.600 euro), ma anche quelli di architetti, pasticceri, macellai e negozianti di giocattoli, mentre sostanzialmente invariati sono i redditi dei farmacisti, dei fornai, dei negozi di alimentari, dei fiorai. Ovviamente si parla di valori medi, perché tra le diverse tipologie di contribuenti soggetti agli studi di settore esistono differenze molto evidenti. Basti pensare, come sottolinea il ministero dell Finanze in una nota che accompagna i dati di ieri, che i contribuenti persone fisiche dichiarano il 26,9% dei ricavi complessivi, ma dichiarano il 57,3% dei redditi. Mentre, al contrario, le società di capitali soggette agli studi di settore, pur dichiarando la metà del totale dei compensi, denuncia solo il 17,8% del totale dei redditi. Anche l’analisi delle dichiarazioni Iva fornisce indicazioni interessanti sulla struttura dei redditi. In quell’ambito lo 0,85% dei contribuenti, che sono quelli che hanno un giro d’affari superiore a 7 milioni di euro l’anno, detengono circa il 66% del volume d’affari complessivo registrato dai 5,2 milioni di partite Iva attive. Da sottolineare, sempre per quanto riguarda l’Iva, gli effetti della stretta sulle compensazioni tra crediti e debiti, avviata due anni fa con la certificazione obbligatoria del crediti da parte dei commercialisti. Il giro di vite ha prodotto un calo delle compensazioni di quasi il 40%: tra il 2009 ed il 2010 sono scese da 16,5 a 10,1 miliardi di euro. Segno che le nuove norme, dice il ministero, si sono dimostrate efficaci contro le compensazioni indebite, e dunque contro l’evasione fiscale.
Un fronte sul quale il governo e le sue agenzie non hanno intenzione di arretrare. «Noi applichiamo la legge, e non possiamo stabilire caso per caso quale sia una sofferenza giusta che si può infliggere, e quale sia una ingiusta che non va inflitta. Se così si facesse, si derogherebbe alla legge. È il Parlamento che deve affrontare questo problema. Essere fermi non vuol dire essere insensibili».
Mario Sensini

Ue. «Salviamo le banche, non gli Stati»

L'incredibile sortita del presidente della Commissione Ue chiarisce il senso «politico» delle scelte fin qui operate dalla troika (Fmi, Bce e Ue) nella gestione della crisi.

Quando anche Wall Street apre in calo netto - subito l'1% in meno (diventeranno 2 nel corso della giornata - si capisce che i santi hanno smesso di proteggere i mercati internazionali.
Il «la» era stato dato proprio dall'America, la notte scorsa. Una piccola ma influente agenzia di rating - la Egan Jones - che funziona spesso da pesce pilota per le «tre sorelle» più grandi (Fitch, S&P, Moody's) ha declassato il debito pubblico della Spagna a «B». Contemporaneamente si era diffusa la voce che il governo spagnolo avesse deciso di rifinanziare l'istituto Bankia, da pochi giorni di fatto nazionalizzato, con 19 miliardi di prestito da parte della Bce. Ma che Francoforte avesse negato tale possibilità.
Tanto bastava per confermare Madrid al centro del mirino di tutta la speculazione internazionale, nonostante innumerevoli attestazioni di stima per «il coraggio» e la «severità» delle immancabili «riforme strutturali» (pensioni, mercato del lavoro, ricapitalizzazione delle banche) messe in campo dal governo Rajoy.
Ma la mazzata più dura alla fiducia nella «politica europea» veniva data - con incredibile effetto boomerang - dal presidente della Commissione Ue, José Barroso. Tra le raccomandazioni rituali del rapporto che andava presentando ne ha infilata una che chiarisce anche ai profani il senso economico delle scelte fatte fin qui dalle istituzioni internazionali: «il fondo salva-stati (Esm) dovrebbe ricapitalizzare direttamente le banche».
Non c'è bisogno di traduzione. Lo strumento creato tra mille difficoltà e resistenze (sugli esborsi da effettuare per i paesi più forti) per sanare gli squilibri di alcuni stati dell'eurozona - senza peraltro esserci ancora riuscito, vedi il caso della Grecia - dovrebbe servire soltanto a portare ancora altre somme colossali nelle casse di banche private.
Perché? Secondo la stessa Commissione così si potrebbe «spezzare il legame tra banche e debito pubblico». Qui una spiegazione è necessaria. Negli ultimi mesi, attraverso due maxi-operazioni di prestito a interesse base (1%), la Bce ha dato alle banche circa 1.000 miliardi, con il tacito accordo che queste ultime avrebbero acquistato titoli di stato (in quel momento ansimanti). Ovviamente guadagnandoci col differenziale tra gli interessi. Il corto circuito era però perfetto: le banche erano esplose nel 2008, rendendo palese la crisi globale; gli stati (anche quelli virtuosi come l'Irlanda) si erano indebitati per riempirle di soldi freschi e salvarle; il debito degli stati veniva infine acquistato dalle banche stesse.
La «pensata» della Commissione è fantozziana: diamo direttamente alle banche i soldi che dovremmo dare agli stati, così ci faranno qualcosa d'altro. Insomma: che le popolazioni (interne agli stati) friggano pure nella crisi, ma le banche volino là dove le porta il margin call.
La Commissione sa bene che in questi giorni le «attività finanziarie» (quelle che fanno sia le banche che altri grandi investitori) stanno «ritirandosi entro i confini nazionali», vendendo tutto ciò che non è strettamente conosciuto o controllabile. Il rischio nemmeno tanto nascosto è la «disintegrazione finanziaria» dell'eurozona. E, con una certa logica, si raccomanda «un'unione bancaria», con supervisione finanziaria integrata, fino a «uno schema unico di garanzia sui depositi». Ma l'uso del «salva-stati» come «salva-banche» è in radicale contraddizione con questo obiettivo: perché è ormai quasi dappertutto molto difficile convincere «la gente» che le banche vengano prima delle persone.
Il caos gestionale europeo è tale che Obama ha inviato qui il suo sottosegretario per gli Affari internazionali, Lael Brainard, col compito di far capire cosa ci si aspetta dall'altro lato dell'Atlantico. E tanto per farsi capire subito, la signora Lael ha detto di «riconoscere in pieno i sacrifici fatti dai greci fin qui». L'esatto opposto delle parole in libertà di Christine Lagarde (Fmi) e di vari «ortodossi» teutonici.
Comunque poco per spargere ottimismo. L'euro è sceso ai minimi sul dollaro (sotto 1,24), per la gioia degli esportatori tedeschi. Il petrolio è sceso sotto gli 89 dollari, e così molte altre materie prime. La recessione sarà lunga, inutile dunque «ordinare» energia e merci-base.


mercoledì 30 maggio 2012

La lettera che avremmo voluto scrivere per il 2 giugno

La lettera che non potremo scrivere a Monti o Napolitano

Questa è la lettera di risposta che Lelio Basso scrisse all’allora ministro della Difesa Arnaldo Forlani che decise di sospendere la parata militare del 2 giugno 1976 dopo il terremoto che sconvolse il Friuli.


Sono personalmente grato al ministro Forlani per avere deciso la sospensione della parata militare del 2 giugno, e naturalmente mi auguro che la sospensione diventi una soppressione.
Non avevo mai capito, infatti, perché si dovesse celebrare la festa nazionale del 2 giugno con una parata militare. Che lo si facesse per la festa nazionale del 4 novembre aveva ancora un senso: il 4 novembre era la data di una battaglia che aveva chiuso vittoriosamente la prima guerra mondiale. Ma il 2 giugno fu una vittoria politica, la vittoria della coscienza civile e democratica del popolo sulle forze monarchiche e sui loro alleati: il clericalismo, il fascismo, la classe privilegiata. Perché avrebbe dovuto il popolo riconoscersi in quella sfilata di uomini armati e di mezzi militari che non avevano nulla di popolare e costituivano anzi un corpo separato, in netta contrapposizione con lo spirito della democrazia?
C’era in quella parata una sopravvivenza del passato, il segno di una classe dirigente che aveva accettato a malincuore il responso popolare del 2 giugno e cercava di nasconderne il significato di rottura con il passato, cercava anzi di ristabilire a tutti i costi la continuità con questo passato. Certo, non si era potuto dopo il 2 giugno riprendere la marcia reale come inno nazionale, ma si era comunque cercato nel passato l’inno nazionale di una repubblica che avrebbe dovuto essere tutta tesa verso l’avvenire, avrebbe dovuto essere l’annuncio di un nuovo giorno, di una nuova era della storia nazionale. Io non ho naturalmente nulla contro l’inno di Mameli, che esalta i sentimenti patriottici del Risorgimento, ma mi si riconoscerà che, essendo nato un secolo prima, in circostanze del tutto diverse, non aveva e non poteva avere nulla che esprimesse lo spirito di profondo rinnovamento democratico che animava il popolo italiano e che aveva dato vita alla Repubblica.
La Costituzione repubblicana, figlia precisamente del 2 giugno, aveva scritto nell’articolo primo che l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro.
Una repubblica in primo luogo. E invece quel tentativo di rinverdire glorie militari che sarebbe difficile trovare nel passato, quel risuonare di armi sulle strade di Roma che avevano appena cessato di essere imperiali, quell’omaggio reso dalle autorità civili della repubblica alle forze armate, ci ripiombava in pieno nel clima della monarchia, quando il re era il comandante supremo delle forze armate, “primo maresciallo dell’impero”. Le monarchie, e anche quella italiana, eran nate da un cenno feudale e la loro storia era sempre stata commista alla storia degli eserciti: non a caso i re d’Italia si eran sempre riservati il diritto di scegliere personalmente i ministri militari, anziché lasciarli scegliere, come gli altri, dal presidente del consiglio. Ma che aveva da fare tutto questo con una repubblica che, all’art. 11 della sua costituzione, dichiarava di ripudiare la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali? Tradizionalmente le forze armate avevano avuto due compiti: uno di conquista verso l’esterno e uno di repressione all’interno, e ambedue sembravano incompatibili con la nuova costituzione repubblicana.
Repubblica democratica in secondo luogo. In una democrazia sono le forze armate che devono prestare ossequio alle autorità civili, e, prima ancora, devono, come dice l’art. 52 della costituzione, uniformarsi allo spirito democratico della costituzione. Ma in questa direzione non si è fatto nulla e le forze armate hanno mantenuto lo spirito caratteristico del passato, il carattere autoritario e antidemocratico dei corpi separati, sono rimaste nettamente al di fuori della costituzione. I nostri governanti hanno favorito questa situazione spingendo ai vertici della carriera elementi fascisti, come il gen. De Lorenzo, ex-comandante dei carabinieri, ex-capo dei servizi segreti ed ex-capo di stato maggiore, e, infine, deputato fascista; come l’ammiraglio Birindelli, già assurto a un comando Nato e poi diventato anche lui deputato fascista; come il generale Miceli, ex-capo dei servizi segreti e ora candidato fascista alla Camera. Tutti, evidentemente, traditori del giuramento di fedeltà alla costituzione che bandisce il fascismo, eppure erano costoro, come supreme gerarchie delle forze armate, che avrebbero dovuto incarnare la repubblica agli occhi del popolo, sfilando alla testa delle loro truppe, nel giorno che avrebbe dovuto celebrare la vittoria della repubblica sulla monarchia e sul fascismo. E già che ho nominato De Lorenzo e Miceli, entrambi incriminati per reati gravi, e uno anche finito in prigione, che dire della ormai lunga lista di generali che sono stati o sono ospiti delle nostre carceri per reati infamanti? Quale prestigio può avere un esercito che ha questi comandanti? E quale lustro ne deriva a una nazione che li sceglie a proprio simbolo?
Infine, non dimentichiamolo, questa repubblica democratica è fondata sul lavoro. Va bene che, nella realtà delle cose, anche quest’articolo della costituzione non ha trovato una vera applicazione. Ma forse proprio per questo non sarebbe più opportuno che lo si esaltasse almeno simbolicamente, che a celebrare la vittoria civile del 2 giugno si chiamassero le forze disarmate del lavoro che sono per definizione forze di pace, forze di progresso, le forze su cui dovrà inevitabilmente fondarsi la ricostruzione di una società e di uno stato che la classe di governo, anche con la complicità di molti comandanti delle forze armate, ha gettato nel precipizio?
Vorrei che questo mio invito fosse raccolto da tutte le forze politiche democratiche, proprio come un segno distintivo dell’attaccamento alla democrazia. E vorrei terminare ancora una volta, anche se non sono Catone, con un deinde censeo: censeo che il reato di vilipendio delle forze armate (come tutti i reati di vilipendio) è inammissibile in una repubblica democratica.

Ponzellini, l’allievo di Prodi folgorato da Bossi di Giorgio Meletti, Il Fatto Quotidiano


Massimo Ponzellini è nato ricco, ma ricco veramente. Sua padre, Giulio, era il facoltoso imprenditore che sostenne a Bologna la nascita del Mulino e della scuola economica di Nino Andreatta prima e Romano Prodi poi. Sua madre è Marisa Castelli dell’Anonima Castelli, colosso dei mobili per ufficio. Poi si è sposato con Maria Segafredo della famiglia del caffè. “Da ragazzo avevo diverse Ferrari, adesso ne ho una sola”, spiegava un anno fa a un’attonita Daria Bignardi per descrivere la sobrietà raggiunta con i 60 anni.
Corpulento, chiacchierone, fiero del suo dongiovannismo, Ponzellini merita un posto nel Pantheon dell’Italia in declino. Nato prodiano, è diventato un simbolo dello spirito del tempo berlusconiano. Al suo attivo alcuni record, tra cui quello di aver insegnato all’Università Bocconi senza essersi mai laureato. Un testimonial dell’Italia dove studiare non serve a niente se sei pieno di amicizie.
Ed eccolo ventottenne, già amministratore delegato nell’azienda del padre, che però non è contento di lui e chiede al giovane professore Romano Prodi di fargli fare qualcosa di utile per sè e magari per il prossimo. Prodi, nominato ministro dell’Industria, se lo porta a Roma come assistente. È il novembre del 1978, Aldo Moro è stato ucciso dalle Br appena sei mesi prima, ma Ponzellini non si fa scrupolo di arrivare sotto il ministero, in via Veneto, sgommando in Ferrari. Segue poi Prodi all’Iri dove fa una certa carriera.
Quando il Professore viene fatto fuori, e sostituito con l’andreottiano Franco Nobili, Ponzellini deve cambiare aria, e si piazza a Londra, nella nascente Bers, la banca europea per la rinascita economica dell’Est Europa. Ponzellini solennizza il momento comprandosi la Bentley, preferibile alla Rolls Royce, spiegherà in seguito, perché te la guidi da solo mentre la Rolls senza autista è improponibile. A Londra il giovane banchiere rileva un certo traffico.
Si sposta poi alla Bei, Banca europea per gli investimenti, dove resta fino al 2003 come vice presidente e amministratore delegato. Come molti cervelli in fuga, Ponzellini prepara il ritorno in Italia. La sua rete di relazioni si infittisce. Nel 2001 è tra gli azionisti della nuova Unità riportata in edicola da Furio Colombo e Antonio Padellaro, e affianca la campagna elettorale di Francesco Rutelli candidato premier. Vince Berlusconi, e allora Ponzellini decide (e dichiara, perché l’uomo è schietto) che quelli come lui, che vogliono bene all’Italia, devono stare vicini a chi vuole il bene del Paese. Per esempio, Silvio Berlusconi. Per esempio Luigi Bisignani. Ma anche e soprattutto il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Che nel 2002 gli affida la neonata Patrimonio Spa, che deve censire e dismettere gli immobili pubblici. Se oggi tra gli obiettivi del governo Monti c’è ancora il miraggio di vendere un po’ di beni demaniali il merito è tutto di Ponzellini che non ha combinato niente. Però il banchiere senza laurea piace a Tremonti, che lo promuove alla guida del Poligrafico dello Stato.
Veloce nei movimenti, sia geografici che politici, Ponzellini comincia a fare acrobazie. Tra una barzelletta, un affare e un complimento alla bellezza di passaggio, diventa nel 2007 anche presidente dell’Impregilo, la più grande società di costruzioni italiana, in crisi nera dopo la gestione Romiti. Si affida a lui il gruppo Gavio, che è in ottimi rapporti con il presidente della provincia di Milano Filippo Penati. Ponzellini finisce indagato per un finanziamento a Faremetropoli, l’associazione di Penati, ma sostiene di non saperne niente.
Da berlusconiano, il ragazzo vuole rimanere anche prodiano, tanto che il Professore si stufa e affida al portavoce Silvio Sircana una feroce lettera al Corriere della Sera: chiede di non scrivere più che il banchiere “è vicino” a Prodi, perché i due sono solo vicini di casa a Bologna, per cui “sarebbe più opportuno parlare di vicinato e non di vicinanza”. Ponzellini però è oltre. Riscopre le origini varesine della famiglia e diventa amico di Umberto Bossi, “persona per bene”. Fa l’accordo con la Cisl di Raffaele Bonanni e i dipendenti della Banca popolare di Milano lo eleggono presidente, nel 2009. Bossi dice che Ponzellini è un suo uomo. Alla domanda se preferisca la compagnia di Bossi o di Prodi, il ragazzaccio dice che è come chiedere se preferisci stare a casa con i genitori o al bar con gli amici. Prodi è il padre palloso, Bossi l’amico scoppiettante. Gusti. Però alla fine dalla Bpm lo cacciano e Ponzellini si trova sotto indagine per la storia che ieri l’ha portato agli arresti domiciliari. Ma ha di che consolarsi. Il presidente Napolitano proprio l’anno scorso l’ha fatto cavaliere del Lavoro. E perché no?

lunedì 28 maggio 2012

Perché il Vaticano teme “Sua Santità”. Parla Gianluigi Nuzzi


Gianluigi Nuzzi, firma del quotidiano ‘Libero’ e volto del programma televisivo in onda la scorsa stagione su la7 ‘Gli intoccabili’, dopo le inchieste “Vaticano Spa” e “Metastasi”, torna a raccontare i segreti del Vaticano. Questa volta lo fa con il libro "Sua Santità" (ed. Chiarelettere) in cui svela intrighi di potere, corruzione e intrecci tra il Governo italiano e la Chiesa, attraverso carte segrete di Papa Benedetto XVI, inedite e private, al centro di polemiche in queste ore dopo l'arresto dell'uomo che secondo il Vaticano avrebbe trafugato i documenti riservati.

Immediatamente dopo la pubblicazione del suo libro ‘Sua Santità’, il Vaticano ha comunicato che agirà per vie legali.
Questa è una risposta oscurantista da parte del Vaticano. Il giornalista ha il dovere deontologico di rendere pubbliche le notizie che trova. Io ho fatto solo il mio mestiere. Mi fa ridere pensare che il Vaticano chieda aiuto ai magistrati italiani dopo che non ha mai risposto alle rogatorie che ha ricevuto su tante vicende. Gliene indico solo una: l’omicidio del banchiere Roberto Calvi. Lo stesso pm del caso Calvi ha detto che alcune rogatorie sono rimaste del tutto inevase. Da una parte, sulle vicende di sangue, il Vaticano non risponde. Dall’altra, dopo l’uscita del mio libro, ricorre alla magistratura italiana per stanare le mie fonti.

Non c’è stata nessuna violazione della privacy?
Ma sta scherzando? Qui si tratta di dovere di cronaca. Quando si entra in possesso di un memorandum del Papa in occasione dell’incontro con il Presidente Napolitano, credo che il dovere di cronaca sia preminente. Capire chi sono stati i congiurati che hanno fatto fuori Boffo, secondo le sue stesse parole, è prioritario. Sapere che c’è stato un lavoro diplomatico che si è sviluppato tra l’Italia e il Vaticano per evitare che il Vaticano pagasse una multa sugli arretrati della tassa dell’Ici e che questa trattativa si è sviluppata in incontri tra Tremonti e l’ex presidente della Banca dello Ior Gotti Tedeschi, interessa tutti gli italiani che pagano le tasse. Come pure il memorandum sulle leggi da modificare che finisce nelle mani del Santo Padre alla vigilia dell’incontro con il Presidente Giorgio Napolitano. È interessante sapere che il Vaticano è intervenuto perché l’Eta deponesse le armi. Sono storie che non riguardano solo il Vaticano, ma tutta la politica italiana e internazionale, si intrecciano con essa e con le scelte economiche. Ci sono vicende singolari, come quella dell’automobile targata ‘Stato Città del Vaticano’ condotta da alcuni gendarmi del Vaticano che vanno a cena con colleghi dell’Interpol e quando escono ritrovano la macchina crivellata di colpi. Vogliamo rassicurarci dicendo che sicuramente è stato un balordo? Cos’è successo? Non lo sappiamo.

I ‘reati’ imputati dal Vaticano sono furto e ricettazione.
La ricettazione di notizie è un brutto segnale, indica un bavaglio all’informazione. È curioso che in un Paese, il Vaticano, dove hanno introdotto soltanto nel 2009 la legge antiriciclaggio, proprio loro indichino alle autorità italiane il reato di ricettazione. È surreale. Comunque in Italia per la Cassazione non esiste la ricettazione di notizie. Se io avessi dei documenti e li tenessi nel cassetto, farei un altro mestiere. Ancora peggio se tenessi per me una parte dei documenti senza pubblicarli, qualora li reputassi ‘compromettenti’, perché sarei da considerare un ricattatore che distilla notizie per il suo tornaconto. I cassetti dei giornalisti devono essere vuoti.

Si aspettava tanto clamore o è abituato, date le tematiche del suo precedente libro ‘Vaticano spa’?
‘Vaticano Spa’ non ha sortito alcuna reazione del Vaticano. Hanno cercato di far passare tutto sotto silenzio nonostante avessi migliaia di documenti e parlassi di come la maxi tangente Enimont fosse passata per lo Ior, la banca vaticana. Anche lì c’erano tante lettere, ma forse non davano fastidio ad altri.

Perché ‘Sua Santità’ indispettisce il Vaticano?
Per la prima volta abbiamo occasione di conoscere il dietro le quinte delle attività tra l’ Italia e il Vaticano. Sappiamo dei timori del Vaticano rispetto alla situazione economica mondiale, soprattutto in relazione alla crisi delle offerte. Inoltre, veniamo a conoscenza del conto personale del Papa nella banca vaticana, lo Ior. Si sono adirati perché abbiamo una molteplice varietà di notizie e di informazioni. Ma non con me, mi auguro, perché sarebbe un brutto segnale per la libertà di stampa. Ce l’hanno con le mie ‘fonti’. Ora cercheranno di individuare chi ha passato i documenti.

Nel suo libro sostiene che una delle priorità del papato attuale è di tenere unita la Chiesa. Fino a che punto?
È un tentativo dal Santo Padre rispetto alla crisi dei fedeli, che, certo, di questi tempi non aumentano. C’è l’impegno di tenere unite le varie anime della chiesa, tutti i movimenti interni: da Comunione e Liberazione all’Opus Dei e altri. C’è anche un tentativo di dialogo con la chiesa ufficiale cinese. Poi c’è stata un’apertura anche quando il Papa ha revocato la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani. Benedetto XVI cerca di recuperare lo scisma che c’è stato con tutti i gruppi, anche con i Legionari di Cristo emerge in maniera forte il tentativo di non criminalizzarli. Peccato che poi ci sia molto disagio e subbuglio all’interno di questi movimenti.

Lei dedica anche un capitolo alle offerte destinate al Vaticano. Ci sono varie personalità, tra cui Bruno Vespa, che versa un assegna di 10.000 euro.
Trovavo interessante questo viavai di oboli che arriva in Vaticano la vigilia di Natale. Volevo evidenziare il flusso di denaro proveniente da tante personalità. Credo che il fatto che Bruno Vespa ceni a casa sua con il Segretario di Stato Tarcisio Bertone non sia un fatto proprio usuale. C’è un mondo, che non conosciamo, che dialoga con il Vaticano, un mondo di relazioni che è emblematico e che si manifesta anche con quell’assegno. Mi piaceva e mi interessava il fatto che Vespa chiedesse un appuntamento a Papa Benedetto XVI nella stessa lettera in cui versa diecimila euro. Letta, Geronzi, Bisignani, sono tutti uomini che hanno ruotato in quel mondo, tutta quella rete relazionale è stata un pezzo importante del potere politico ed economico in Italia ed era giusto raccontarlo. Vespa rappresenta un’interfaccia mediatica. Mi incuriosiva perché lui chiede un appuntamento con il Papa e c’è un’attenzione che normalmente, se lei scrive al Papa o a chi per lui, certo non le rivolgono, non valutano la sua lettera.

A suo avviso, quali sono le differenze tra il papato di Benedetto XVI e quello del suo predecessore Giovanni Paolo II?
Benedetto XVI cerca di cambiare le cose, al contrario del precedente pontificato, però incontra tante resistenze. La priorità per Giovanni Paolo II era soprattutto far cadere il comunismo nei Paesi dell’Est e liberare la sua Polonia con qualsiasi mezzo, anche finanziario. Benedetto XVI è molto meno simpatico, mediaticamente parlando. Però ha compiuto dei cambiamenti importanti. Durante il papato di Giovanni Paolo II, la pedofilia non era perseguita come oggi. Questo papa ha rimosso cinquanta vescovi, Giovanni Paolo II ha coperto la pedofilia. Inoltre, ho notato da questi documenti che nel precedente papato rivolgersi a Giovanni Paolo II era un fatto raro ed eccezionale, ci si rivolgeva alla Segreteria di Stato. Oggi invece molti scavalcano la Segreteria di Stato e si rivolgono direttamente al Santo Padre. Anzi, indicano nella Segreteria di Stato una sorta di ‘problema’. C’è un’ipoteca sulla Segreteria di Stato da parte di diversi cardinali. Tant’è che andarono a Castel Gandolfo per chiedere al Papa di dimettere Bertone.

Il Segretario di Stato Tarcisio Bertone è una figura chiave.
È Il numero due del Vaticano. La Digos scandaglia anche il rapporto tra lui e Benedetto XVI, è interessante capirne le radici e comprendere che tipo di rapporto c’è tra il Papa e lui. Benedetto XVI lo ha voluto fortemente, si fida di lui, lo ha avuto con sé dal 1995 al 2003 come segretario della Congregazione per la Dottrina di Fede, quando il Papa era ancora prefetto. Bertone è fondamentale per i suoi legami e i contatti con il mondo della politica italiana.

Quali scenari politici ed economici odierni spaventano il Vaticano?
La paura oggi non viene dal patto di Varsavia, naturalmente siamo in un altro periodo storico. Il timore oggi è rappresentato dalla Cina e dai paesi emergenti. La preoccupazione, come si deduce dai documenti che ho pubblicato, è di vedere i paesi occidentali impoverirsi a causa della crisi economica e del sistema che stanno soffocando l’economia americana, italiana, spagnola, tradizionalmente i paesi più generosi nei confronti della Chiesa. Mentre i paesi che sarebbero da evangelizzare, come l’India e la Cina, stanno diventando la locomotiva economica del mondo. L’allarme è che la Cina, oltre a questa sua bulimia finanziaria, economica, industriale, metta le mani sull’estrazione delle materie prime, controlli le borse e i fondi di investimento, compri il debito dei paesi e, oltre a tutto questo, esporti l’ateismo, lo diffonda. Questo spaventa i sacri palazzi.

Il ‘caso Boffo’ rivela scuole di pensiero distinte, all’interno del Vaticano, nei confronti della politica dell’ex governo Berlusconi.
Non riduciamo la questione a pro e contro Berlusconi. Ci sono davvero tante individualità all’interno del Vaticano. Sicuramente c’è Dino Boffo che afferisce alla scuola di Ruini e di Bagnasco, i quali sostengono che la Chiesa deve avere un ruolo attivo nei confronti della politica italiana perché la missione politica e sociale fa parte del compito della Chiesa stessa. Dall’altra parte, c’è una scuola più tradizionale che dice il contrario, cioè che non ci deve essere questa ‘ingerenza’. In realtà, vediamo che i rapporti sono strettissimi. In Vaticano ci sono tante anime che si sovrappongono, non è una partita di calcio. Il caso Boffo è stata un’operazione partita all’interno del Vaticano che è finita sul tavolo di Vittorio Feltri con tanto di documenti. Mi perdonerete, ma io credo che Feltri fosse in buona fede, aveva verificato la sua ‘fonte’, non aveva motivo di dubitarne. Ha fatto il suo ‘scoop’ in una logica per taluni discutibile: Boffo criticava di malcostume Berlusconi, poi lo stesso Boffo era condannato per molestie omosessuali. Essendo il giornale di Feltri di proprietà di Berlusconi, è evidente che questa cosa ha assunto un rilievo politico tutto italiano. Si è detto: Berlusconi e Feltri attaccano Boffo, da lì ‘il metodo Boffo’ e si è vissuta questa vicenda nel solito dramma agrodolce all’italiana, senza chiedersi chi avesse portato questo documento a Feltri e perché. Oggi Boffo indica dei nomi, sono quelli veri? Non lo so, lo dice Boffo. Di certo, lui è stato riammesso all’interno della Chiesa e gli è stato dato un altro ruolo di grande rilievo, la direzione della tv della Cei, Tv 2000. Se io dico delle falsità il mio datore di lavoro non mi promuove, ma nemmeno mi riassume. Dall’altra parte anche le persone che accusa Boffo sono rimaste tutte ai loro posti. È una situazione gemella a quella di Viganò e troviamo le stesse persone coinvolte nella faccenda. I congiurati sono sempre gli stessi.

Quali sono stati gli uomini politici del Governo Berlusconi che hanno mediato con il Vaticano e quali sono quelli del Governo Monti?
Il governo Berlusconi aveva due ‘alfieri’, due diplomatici a cui era legata l’attività di confronto con il Vaticano: Gianni Letta e Giulio Tremonti. Oggi il Vaticano può contare su ministri che prima di dire sì al Governo Monti hanno chiesto il beneplacito all’interno dei Sacri Palazzi. Hanno chiesto a Padre Georg Ganswein se potevano accettare l’incarico di diventare Ministri. Uno su tutti: Andrea Riccardi, il fondatore della comunità di Sant’Egidio, che è esattamente Ministro per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione. Poi ci sono i ministri Lorenzo Ornaghi e Corrado Passera. Per dirlo con una battuta: questo è uno tra i governi ‘tecnicamente’ più filo vaticani che abbiamo mai avuto. Mi riferisco a questo secolo, perché naturalmente Andreotti e la Dc battevano tutti.

Sul caso Emanuela Orlandi lei, fino a qualche tempo fa, diceva che non sarebbe stata mai aperta la tomba del boss della Magliana Renato De Pedis sepolto nella chiesa di Sant’Apollinare.
Sono cambiati gli scenari. Quando ho detto che il Vaticano non l’avrebbe mai aperta, è perché non sapevo che fosse indagato Don Vergari. Il fatto che l’ex rettore della basilica di Sant’Apollinare sia indagato mette il Vaticano in una posizione che non può ostacolare lo sviluppo delle indagini, quindi ha dato un nulla osta, non indispensabile, ma importante, perché venga fatta chiarezza. Quello che emerge dalle carte è che il prelato Giampiero Gloder, capo dei ghotstwriters del Papa, scrive al Santo Padre di non intervenire sulla vicenda durante l’omelia dell’Angelus, perché sarebbe un riconoscimento indiretto del problema. Comunque, credo che si debba sempre ragionare sulla vicenda Orlandi ricordandosi di Mirella Gregori. Entrambe le ragazze sono scomparse a un mese di distanza. Penso che questa sia la giusta chiave di lettura.

Lei racconta di una ‘nota preparatoria’ scritta da monsignor Dominique Manberti, ministro degli Esteri della Santa Sede, per Benedetto XVI in occasione di una cena segreta con il nostro Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Nella nota, Dominique Manberti indica al Papa una serie di appunti relativi all’incontro del 19 gennaio 2009, giorno in cui vedrà Napolitano. Il primo paragrafo è dedicato a una biografia di Napolitano. Ho trovato ‘divertente’ il fatto che sottolinei che Napolitano si è sposato con rito civile e non con quello religioso. Poi si entra più nel dettaglio nel secondo paragrafo, perché si introducono i temi di interesse della Santa Sede e della Chiesa in Italia. Si evidenzia la centralità e il valore della famiglia e, in seguito, i temi eticamente sensibili. In questi appunti è scritto che si devono evitare equiparazioni legislative e amministrative tra le famiglie fondate sul matrimonio e altri tipi di unione. Magari il Papa non li ha neanche usati, ma il fatto stesso che siano stati evidenziati questi temi è grave. Non hanno evidenziato il problema della fame nel mondo, la disoccupazione, le tasse. Hanno sottolineato i problemi legati a temi eticamente sensibili. C’è scritto, inoltre, che riguardo all’ipotesi di intervento legislativo in materia di fine vita e di fine trattamento, si deve evitare che l’eutanasia passi. Poi si parla anche di parità scolastica e di calo demografico. Ci sono indicazioni precise. il Papa deve fare leva su Napolitano. Lei si immagini Napolitano che fa pressione su Obama su delle leggi americane. Perché lo stato vaticano può far pressione sullo stato italiano? Perché uno stato sì e l’altro non può farlo? La mia è una provocazione, ma credo che qui ci sia una rilevanza della notizia.

Il Vaticano ha paura di essere delegittimato dalle rivelazioni contenute nel suo libro?
Ma scusi, sono io che delegittimo le Sacre Istituzioni o sono loro che si autodelegittimano con l’omicidio Calvi, con Emanuela Orlandi, con la strage delle guardie svizzere, con la banca dello Ior?


Il Tesoro: “Miliardi della Bce? Alle imprese neanche un euro” di di Caterina Perniconi, Il Fatto Quotidiano

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Trentadue imprenditori suicidi in quattro mesi. Meno di un mutuo su tre ai giovani sotto i 35 anni. Ma che fine hanno fatto i 255 miliardi che la Banca centrale Europea ha prestato agli istituti di credito italiani tra dicembre e febbraio, destinati anche al credito per famiglie e imprese? Per ora ai cittadini non è arrivato un euro. Chi lo dice? Il governo, se pur giustificando le banche. Ma andiamo per ordine. Gli obiettivi di Francoforte erano chiari: il rifinanziamento alle banche, con un’operazione a tre anni che si è svolta in due tranche (116 miliardi a dicembre e 139 a febbraio), doveva ridurre il debito pubblico e concedere mutui e prestiti a famiglie e imprese per far ripartire l’economia. Invece le banche italiane hanno utilizzato questi soldi – ricevuti al tasso stracciato dell’1per cento – per acquistare titoli di Stato a tassi molto vantaggiosi, contribuendo alla riduzione dei tassi d’interesse sul debito pubblico. Contemporaneamente però hanno ridotto l’accesso al credito, sia nella quantità, sia alzando il costo dei finanziamenti . Il 16 aprile i deputati Ignazio Messina e Francesco Barbato (Idv) hanno chiesto, con un’interrogazione parlamentare, che destinazione avessero avuto i 255 miliardi.
MERCOLEDÌ scorso, quindi oltre un mese dopo, in Commissione Finanze a Montecitorio il sottosegretario Vieri Ceriani non ha risposto al quesito sebbene la Camera avesse già ricevuto gli elementi di risposta dal dicastero di via XX Settembre, che saranno quindi resi pubblici nella seduta di mercoledì prossimo. Nel documento è spiegato che “con l’immissione di liquidità da parte della Bce è stata interrotta la spirale negativa tra aumento dei rischi sovrani, difficoltà del sistema bancario e peggioramento congiunturale, che nell’ultima parte del 2011 tendeva ad assumere carattere sistemico. Le tensioni, tuttavia, sono riemerse in aprile, segnalando l’esistenza di rischi tuttora elevati”. Tradotto: il pericolo di default è stato solo tamponato. Quindi i soldi sono serviti per abbassare la pressione su debito e spread . Ma a fronte dei miglioramenti del primo trimestre dell’anno, il Ministero ammette nella risposta che “gli intermediari italiani (le banche, ndr) dispongono ora di risorse liquide per fronteggiare passività in scadenza e per finanziare l’economia”. I soldi, quindi, non si sono ancora mossi in direzione di famiglie e imprese. Non solo, “nell’ambito dei sondaggi condotti dalla Banca d’Italia – spiegano ancora dal Ministero – le maggiori banche hanno manifestato l’intenzione di impiegare parte dei fondi ottenuti dalla Bce per riavviare il credito a famiglie e imprese”. Ma come l’intenzione? E gli auspici di rilancio dell’economia? Sono diventati solo buoni propositi? Com’è noto gli istituti di credito hanno acquistato titoli di Stato a tassi più alti che permettono un guadagno sicuro. “Nei primi due mesi di quest’anno – scrive ancora il Ministero – le banche italiane hanno ripreso ad acquistare titoli pubblici italiani”. Sebbene “quasi il 60 per cento degli acquisti ha fatto capo a banche piccole e medie, che hanno ottenuto una quota molto bassa dei finanziamenti erogati dalla Banca centrale”. Inoltre, i soldi erogati dalla Bce sono stati usati anche per “rifinanziare l’ingente volume di obbligazioni in scadenza”.
“CI SONO AZIENDE che, mentre le banche contavano i miliardi guadagnati speculando sul prestito europeo, hanno dovuto chiudere perché non gli sono stati concessi mutui di poche migliaia di euro – ha dichiarato il leader Idv, Antonio Di Pietro – il governo Monti ha il preciso dovere di impedire che il giochino prosegua. Il minimo che un governo serio possa e debba fare è garantire che le banche che prendono i soldi per riaprire il credito, poi lo riaprano davvero: non è certo una vessazione”. Quindi cosa dice il governo? “Le operazioni della Bce è stata di grandissima saggezza per l’Europa e certo anche rilevante per l’Italia – dichiarò il ministro per lo Sviluppo Economico, Corrado Passera, in occasione dell’asta per la seconda tranche di fondi – il mestiere delle banche è quello di fare credito: se non lo fanno, sono le prime a non avere i conti economici in ordine”. E ieri l’ex amministratore delegato di Intesa, che di banche se ne intende, ha chiesto agli istituti di credito “di fare di più perché in un paese come l’Italia le banche sono molto collegate all’economia reale e se oggi soffrono è anche per questa ragione”. Immediata la risposta del presidente di Abi, Giuseppe Mussari: “L’esortazione del ministro Passera alle banche affinchè facciano di più per le imprese in genere e per le start-up in particolare è corretta. Lo stesso governo, però, deve fare di più”. Di sicuro non arriverà un provvedimento restrittivo da Francoforte: “La Bce non può imporsi sulle istituzioni finanziarie e sul metodo di utilizzo della liquidità fornita nelle operazioni di politica monetaria dell’Eurosistema” ha sentenziato Mario Draghi. La palla torna al governo di Mario Monti. Difficile non immaginare da che parte starà.