domenica 29 novembre 2015

L’ipotesi Paolo Vinti è: fronte popolare cosmico di Wu Ming


Con emozione... Con emozione altissima

[Un giorno di amore e politica, Un giorno di sentimento e socialità, Un giorno di emozione ed ideologia. Sono i tre libri che compongono la trilogia di Paul Beathens aka Paolo Vinti (1960-2010) Con emozione… con emozione altissima, ora raccolta in un unico volume. L’hanno presentata a Perugia, il 9 novembre scorso, Maurizio Terzetti e Wu Ming 1. Quest’ultimo è autore della prefazione al libro, che vi proponiamo integralmente. Come afferma WM1 in quest’intervista, Paolo Vinti merita di essere conosciuto al di fuori della sua Perugia. Stiamo parlando di un “santo folle”, di un poeta di altissimo livello, e di un filosofo marxista di strada il cui pensiero presenta tratti parecchio originali. A quanto ci consta, è l’unico che abbia prodotto una sintesi operativa tra la dialettica hegeliana e la critica radicale di tale dialettica espressa dal pensiero post-strutturalista francese degli anni Settanta (Deleuze & Guattari, per capirci), senza usare tale critica come mera antitesi da negare, come invece sembra fare Fredric Jameson. Lo sappiamo, pare ‘na supercazzola, ma se leggete la prefazione  con gli esempi si capisce.
Come sempre, invitiamo alla visione del documentario Film astratto rosso del Collettivo Ipanema, che ritrae Paolo nel 2007, all’apice della sua “stagione delle declamazioni”.
Il libro non ha ancora una distribuzione nazionale, ma per averlo potete scrivere all’Associazione Paolo Vinti]

L’ipotesi Paolo Vinti è: la vita di un filosofo e poeta. Sovente si usa l’attributo «filosofo» tanto per dire, esagerando, infiorettando, leccando posteriori. La patente di filosofo è consegnata con sventatezza: nel corso degli anni si sono sentite espressioni come «il filosofo Rocco Buttiglione», e chiunque scriva di filosofia è autorizzato a dirsi filosofo. Chi scrive di ciclismo manca di essere un ciclista, recensire una mostra manca di rendere pittori, ma per la filosofia è diverso: todos caballeros, tutti filosofi.
Paolo, invece, è filosofo per davvero. Leggendolo e ascoltandolo con attenzione, risultano evidenti una conoscenza profonda e un uso innovativo della filosofia continentale, della dialettica e del pensiero francese degli anni Sessanta-Settanta. Paolo manca di indulgere in quello che in inglese viene chiamato «name dropping», gettar lì il nome di questo o quel grande pensatore per far capire che lo si è letto e lo si conosce a menadito. Tuttavia è chiaro, seguendo i concetti che usa, che in lui trova corpo e sintesi una molteplicità di percorsi teorici. La sua elaborazione è interna al filone marxista, ma aperta ad altre visioni e pulsioni, purché permettano di immaginare il comunismo come liberazione degli umani e realizzazione delle potenzialità della specie.
L’ipotesi Paolo Vinti è: il corpo di un filosofo di strada. Come Socrate, che stava nell’agorà, nella piazza, nelle vie ad interrogare la gente. Come Diogene, che viveva in una botte e girava di giorno con una lanterna accesa, e quando gli chiedevano «Ma che fai?» rispondeva: «Cerco l’uomo.» Paolo fa filosofia con le parole, ma soprattutto la fa con la parola incarnata, con il corpo, con l’esempio del suo modo di vivere, tutti i giorni. Vivere per le strade.
L’ipotesi Paolo Vinti è: un poeta che usa la lingua a misura di precise, precisissime strategie testuali e corporee. Chi dedica a Paolo le pagine che state leggendo esercita il mestiere di scrittore. Uno scrittore sa riconoscere uno scrittore. Il linguaggio è un cantiere sempre aperto, dove lo scrittore passa le giornate, in bilico sulle impalcature del senso con in mano il secchio e la cazzuola, e in testa un cappello di carta di giornale. Paolo lavora in quel cantiere, e programmaticamente si adopera a forzare il linguaggio, ritmi, risonanze, timbri, accento strascicato, tutto il corpo che trema nell’emettere il suono, per schiudere l’immaginazione di chi ascolta.
Amputazione – oggettivazione – ripetizione – derivazione
L’ipotesi Paolo Vinti è: quattro grandi strategie poetiche, che si è indicato coi nomi «Amputazione», «Oggettivazione», «Ripetizione» e «Derivazione». Paolo le porta avanti sempre insieme, agganciate l’una all’altra, con coerenza e autodisciplina, per ravvivare ciascuna parola e comunicare una filosofia dell’incontro e della veggenza.
Amputazione. Consiste nell’eliminare dal discorso alcune parole e sintagmi. Si tratta di un’azione irrevocabile: una volta tagliate dalla prosa e dai versi alcune espressioni, esse mancheranno di farvi ritorno.
Oggettivazione. E’ un termine usato da Paolo stesso. Va sempre a braccetto con l’amputazione. Consiste nel ripulire il discorso da qualunque manifestazione di narcisismo e culto dell’io. Paolo evita sempre di dire «io». Per impedirsi di usare questo pronome, ricorre a sorprendenti perifrasi e circonlocuzioni.
Ripetizione. E’ la strategia più evidente: Paolo usa di continuo parole e sintagmi, tanto che alcune si sono conficcate nei nostri cervelli e quando ci capita di usarle, ricordiamo il modo in cui le usava lui. Sentire il superlativo «altissimo» richiama subito alla mente «Con emozione altissima».
Derivazione. In grammatica, è il procedimento con cui si creano parole nuove partendo da quelle esistenti, aggiungendo prefissi o suffissi. Da un aggettivo (ad esempio «bello»), si possono ottenere un sostantivo («bellezza») e un verbo («abbellire»), oppure varianti dello stesso aggettivo («bellino», «belloccio», «bellissimo», «strabello»). Paolo va alla deriva nelle derivazioni, incolla e stratifica suffissi in modo da creare parole familiari e al tempo stesso rese nuove, parole che scuotono, creano un micro-shock mentre le sentiamo.
Amputazione: mancare di dire no
L’ipotesi Paolo Vinti è: affermare sempre.
Evitare le negazioni. Mettere al bando i vari «no», «non», «mai» e qualunque parola serva a negare. Mancheremmo di trovare questa parole negli scritti e nelle declamazioni di Paolo. Pur di evitare il “non”, Paolo compie incredibili giravolte, ad esempio traduce il celebre slogan della guerra civile spagnola «No pasaran» con «Mancheranno di passare». La frase negativa è divenuta assertiva, perché il mancare è comunque un agire, è un’azione che si compie, sebbene vada a vuoto. Analogamente, lo slogan degli anni Settanta «La salute non si paga» diviene: «La salute si manca di pagare». Entrambi gli esempi sono presi dalla poesia «Il presente». Addirittura, Paolo trasforma l’espressione «eliminare gli ostacoli», che diviene un «generare eliminazione di ostacoli», e si tratta di un costruire, di un creare, anche se si crea l’eliminazione di qualcosa. Per generare eliminazione di ostacoli ci si deve comunque porre in modo attivo, assertivo, evitando la negazione. L’esempio è tratto da un’altra poesia, «La verità».
Nel mondo di Paul Beathens alias Paolo Vinti esistono solo forze, tutto è attivo e operante.
La cosa che più si avvicina – mancando di esserlo per un pelo – a una negazione la si è trovata, con qualche fatica, in uno scritto intitolato «Il doppio governo», dove si parla di «neutralizzare le forze reazionarie», un proposito che riteniamo inappuntabile. Ma «neutralizzare» significa «rendere neutrale», ovvero togliere dall’agone, spostare dal gioco delle forze in lotta. Significa generare la neutralità delle forze che oggi, nella lotta, sono reazionarie. E’ un proposito rieducativo.
Sempre in questo scritto, sottilissimo il modo in cui Paolo dice che dopo la rivoluzione andranno processati i potenti di ieri: «La stessa ipotizzazione giustizialista sarà necessaria».

Amputazione + oggettivazione: stile nominale
Un altro esempio di amputazione lo dichiara Paolo stesso, nell’introduzione scritta di suo pugno al libro Un giorno di emozione e ideologia: «sostantivazioni ed oggettivazioni con la verbalizzazione sottintesa». In parole povere: generare l’eliminazione completa dei verbi. Manca l’azione verbale, perché è sottintesa. Questo in retorica è detto «stile nominale», significa che ci sono solo sostantivi, ai verbi si allude, ma si evita di usarli. Paolo porta lo stile nominale ai suoi logici estremi. Ecco un brano dove accadono tante cose, pur persistendo la mancanza di verbi:
telefonata, saluti, colloquialità umorismo progetto allestimento riunione operaia lineamenti relazione analiticità ipotesi progetto colloquialità umorismo saluti accensione televisione notiziari notizie informazioni economia stabilità moneta europea esteri fase rivoluzionaria nel terzo mondo.
Amputazione + oggettivazione: mancare di dire io
Paolo si impedisce di dire: «Io penso che». L’ipotesi è che «L’ipotesi è». «L’ipotesi è» si differenzia da «La mia ipotesi è». L’ipotesi è di tutti, è qualcosa che Paolo intercetta nei flussi di comunicazione, di pensiero, di emozione, e momentaneamente rielabora per rioffrirla agli altri. É l’ipotesi che circola in quel momento del concatenarsi tra esistenze.
Quando Paolo mette in scena se stesso, come gli capita di fare nelle poesie, manca sempre di dire «io». L’ipotesi è quella di dire «Il soggetto» e coniugare in terza persona: è «il soggetto» a girare per le vie, è «il soggetto» a bere un caffè. Il soggetto è Paolo (non sempre ma il più delle volte), è lui ma evita di essere un io.
Altrettanto spesso, in luogo di una persona Paolo usa un concetto. Ad esempio, manca di dire “nel bar entra una donna”: a entrare nel bar è «la femminilità».
Frequentissimo, martellante il ricorso alla particella pronominale impersonale «si». All’inizio di Film Astratto Rosso, Paolo propone una brevissima nota autobiografica. Parla di sé, ma schiva abilmente di dire «io». L’ipotesi è che «si proviene da famiglia operaia e impiegatizia», «si è fatto il giornalista», «si è fatto l’operaio», «circa due anni e mezzo sono passati all’estero», a Berlino Ovest, «si è fatto il corrispondente del Quotidiano dei Lavoratori».
«Si è fatto» è diverso da «io ho fatto». Nella lingua di Paolo ogni processo è collettivo, in luogo di un «io» agiscono tanti elementi, una molteplicità di elementi che si concatenano, tante forze che giocano una insieme all’altra.

Ripetizione: l’anafora
Paolo propone di continuo la figura retorica nota come «anafora». L’anafora consiste nell’iniziare più frasi consecutive con la stessa parola o sequenza di parole, per creare un effetto ritmico e di memorabilità. Tutti i leggendari compagni ricordano con emozione altissima le declamazioni, le lunghe tirate di Paolo dove ogni frase inizia con «Si vincerà»: «Si vincerà in Cile… Si vincerà in Congo… Si vincerà a Timor Est». Altre declamazioni anaforiche sono costruite sulla formula «Come previsto»: «Come previsto, compagni, si sono vinte le elezioni in Venezuela… Come previsto, compagni….» Un’altra anafora si ottiene facendo gli auguri: «Buon gennaio, buon inverno, buon inizio di millennio»
Ripetizione: Il compagno è leggendario
L’ipotesi è: in Paolo la ripetizione va molto oltre l’anafora. L’utilizzo insistito e percussivo di formule e parole-chiave è funzionale alla precisazione e affermazione di concetti. Si pensi alla parola «compagno» e alle sue declinazioni («compagna», «compagni», «compagne»), ripetute come in un sutra o in un rosario, compagno, compagno, compagne, compagni. «Compagno» è una parola bellissima, deriva dal latino cum panis, «compagno/a» è colui o colei con cui divide il pane. Paolo usa la parola estendendone al massimo la connotazione, sconfinando dalla comunità di sinistra storicamente definita. In parole povere: Paolo chiama «compagni» anche soggetti che mai si definirebbero tali.
Ma la formula manca di essere completa, perché nella lingua di Paolo il compagno è sempre «leggendario». L’aggettivo è usato consciamente e a proposito: dire che chiunque si incontra è un «leggendario compagno» equivale a dire che la storia di ciascuno è importante. Ogni storia è importante al pari delle altre, si può essere il più umile dei compagni eppure avere una storia che merita di essere ascoltata, conosciuta, raccontata. Siamo tutti leggendari perché le leggende sono la narrazione del popolo e la storia di chiunque di noi è parte della storia del popolo.

Ripetizione + oggettivazione: un mondo di congiunzioni
Una parola usata spesso è «congiunzione», come nelle formule vintiane «Alla congiunzione con il cosmo», «Alla congiunzione con le galassie sociali» etc., che sono al tempo stesso complementi di moto a luogo (noi andiamo verso la congiunzione con il cosmo) e auspici, sorte di brindisi, come quando si dice «Alla salute».
Nella lingua di Paolo, «congiunzione» ha un quasi-sinonimo, «coniugazione». La prima poesia della raccolta Un giorno di sentimento e socialità si intitola «L’inizio», e si badi a come viene descritto un risveglio: «Il soggetto si coniuga alla mattina». Un agganciarsi tra un soggetto e la mattina, ecco cos’è il risveglio.
Nella poesia programmaticamente intitolata «L’incontro», l’atto di bere è descritto così: «Il soggetto coniuga il bicchiere con la bocca». C’è un concatenamento di elementi, di soggetti, è tutto un congiungersi, un coniugarsi, un agganciarsi, un giocare vicendevole di forze. E’ un immaginario molto simile a quello di alcuni filosofi francesi, come Gilles Deleuze e Félix Guattari, che appunto danno grande importanza al concetto di «concatenamento» [agencement].


Dalla ripetizione alla dialettica: tesi, ipotesi, sintesi
Georg Wilhelm Friedrich Hegel 
Due delle parole più utilizzate da Paolo: «ipotesi» e «sintesi», rispettivamente secondo e terzo elemento di una triade, quella della peculiare dialettica vintiana.
Nella prima metà dell’Ottocento, nell’ambito della filosofia idealistica tedesca prende forma quella spiegazione dei mutamenti che verrà chiamata «dialettica» e che Marx ed Engels capovolgeranno, trasformandola da idealistica a materialistica.
Secondo lo schema dialettico classico, il pensiero passa da un concetto più semplice a uno più avanzato tramite il conflitto con se stesso, attraversando tre fasi. Fichte le chiama «tesi», «antitesi» e «sintesi», ovvero: una cosa, il suo contrario e la sintesi delle due. Hegel usa espressioni più complicate, che insieme ad altre rendono i suoi testi inconfondibilmente illeggibili: «momento intellettivo astratto», «momento razionale negativo» e «momento razionale positivo».
In realtà è uno schema molto semplice:
1) in un primo momento si pensa alle idee ognuna per conto suo, prive di relazioni con altre idee. Si prenda un’idea: la felicità. L’idea di felicità all’inizio è pensata in astratto, senza alcun collegamento ad altre idee.
2) In un secondo momento, il pensiero coglie il fatto che ogni idea è collegata ad altre, ogni concetto riceve il suo senso dalla relazione con altri concetti. Il concetto di felicità riceve il suo primo senso relazionandosi al suo contrario, ovvero l’infelicità. Si capisce che cos’è la felicità se si sa che cos’è l’infelicità. Se nella vita si fosse sempre felici, non si conoscerebbe la differenza tra essere felici e non esserlo. Questo è il momento dell’antitesi.
3) All’antitesi deve seguire la sintesi. Si ottiene la sintesi capendo che non solo nella vita ci sono felicità e infelicità, ma esistono condizioni che rendono infelici, che negano il diritto alla felicità, quindi, in virtù di quella che la dialettica chiama «negazione della negazione», per poter essere felice in modo concreto, il soggetto deve negare ciò che nega la sua felicità. La sintesi consiste nel capire che la felicità non capita per caso, non cade addosso come la pioggia, ma è uno stato da perseguire attivamente e realizzare, per il quale bisogna lottare. Ci si pone dunque il problema di quale etica e quale politica possano rimuovere gli ostacoli alla nostra felicità.
Fin qui il percorso «classico» della dialettica: tesi – antitesi – sintesi. Felicità – infelicità – ricerca della felicità. Il ragionamento si sposta su un piano più alto rispetto a quello iniziale, quando il soggetto pensava la felicità in modo astratto e irrelato. Il movimento verso idee più giuste e più esatte avviene attraverso una negazione e poi una negazione della negazione.
Solo che nel pensiero di Paolo mancano le negazioni, quindi manca l’antitesi. Come può essere una dialettica che evita l’antitesi?
Paolo manca di dire «tesi, antitesi e sintesi». Nelle sue declamazioni dice: «Tesi, ipotesi e sintesi». In luogo dell’antitesi mette l’ipotesi e quindi tutto cambia, perché l’ipotesi evita di essere il contrario della tesi.
Che cosa è l’ipotesi rispetto alla tesi? E’ una domanda sui limiti dell’idea iniziale, una domanda che allarga il campo del pensabile delle possibilità. Il soggetto pensa: «felicità» e una voce risponde: «La felicità è congiunzione con le galassie sociali». Manca il momento in cui il soggetto pensa all’infelicità. Nei testi di Paolo si manca di pensare l’infelicità. Esistono invece diverse ipotesi su molte felicità possibili. La felicità è molteplice, dalla tesi sulla felicità si generano sempre nuove ipotesi.
Ma allora, come si realizza la sintesi se si manca di passare attraverso la negazione e quindi di negare la negazione? Paolo lo spiega nel suo libro Rivoluzione: «l’ipotesi si allarga per ospitare una sintesi aperta». Quindi la sintesi manca di risultare dalla negazione della negazione: la sintesi è la convivenza di tutte le ipotesi, tutte le ipotesi generate partendo dall’idea iniziale, quindi dall’idea di felicità, e, scrive ancora Paolo: «il presente come sintesi aperta di tempo che ospita l’esserci, il proprio esserci». Il ciclo della dialettica vintiana manca di chiudersi, rimane sempre aperto. E’ una dialettica, appunto, del molteplice.
Certo, è uno strano ciclo: il soggetto fatica a immaginare un ciclo che si apre soltanto e manca di chiudersi. Che razza di ciclo è? Il ciclo dovrebbe ruotare, lo dice la parola stessa. È un paradosso, come i paradossi geometrici di Escher. Ma il paradosso è difficile da immaginare solo se il soggetto pensa al tempo come a una linea retta sulla quale si può andare solo avanti o indietro. Una traiettoria lineare e continua. Ma se il soggetto immagina il tempo e il divenire della storia come matasse multidimensionali, fatte di tanti fili, di tante traiettorie, allora tutto cambia tutto, perché oltre ad andare avanti e indietro il pensiero può scartare di lato, andare a nord, a sud, a sud-sud ovest, verso l’alto, giù per una vallata…

Il fronte popolare cosmico è interessante
In Rivoluzione si trova un concetto interessante: «coesione aperta», collegabile a un’altra parola importantissima del lessico vintiano: «interessante». Nell’italiano banale che si parla tutti i giorni, «interessante» è un aggettivo blando e poco rischioso, ma Paolo lo ravviva accostandolo a incredibili «coesioni aperte». Per Paolo, un processo è interessante nel senso che ci fa essere in mezzo alle cose. In latino «inter» significa «in mezzo a», Paolo torna alla radice, all’etimo del verbo “inter-esse”. E’ interessante quel che ci prende, ci coinvolge, ci trascina in mezzo. Due esempi:
Coniugando l’unificazione degli universi con il progetto genoma e con l’eliminazione delle povertà lo sviluppo programmatico viene ritenuto interessante.
Coniugare tutti i mondi e le forme di vita, abolire la povertà. Senz’altro interessante. E ancora:
la strutturazione di cooperative che allestiscano del situazionismo culturale, concettuale ed artistico divaricato dal potere, dalla moneta e dalla decisione, è interessante.
Estendere spazi di espressione libera e lavoro comune, ventilando l’ipotesi di abolire il denaro. Molto interessante.
cosmos
Congiunto a questo mondo di coesioni aperte che ci fanno «inter-essere» è l’uso della parola «cosmo». Il cosmo è la totalità, ma è una totalità molteplice. Nel cosmo ci sono stelle, pianeti, asteroidi, comete, nebulose, energie, navicelle spaziali, raggi cosmici, satelliti, buchi neri, supernove, nane bianche… «Cosmo» manca di essere una reductio ad unum, per diventare un’apertura. Alla congiunzione con le galassie sociali!
L’ipotesi è: i vorticanti ed eterogenei elenchi di lotte, tornate elettorali, movimenti e partiti di sinistra che troviamo nelle declamazioni di Paolo servono a rendere immaginabile un fronte popolare cosmico che interessi tutti i leggendari compagni e le leggendarie compagne, dalla sinistra più «moderata» a quella più insurrezionale. Quella di Paolo è un’insiemistica radicale e radicalmente egualitaria, che mette sullo stesso piano diversi ordini di grandezza, complessità e consistenza storica. Nel testo intitolato «Impero!» Paolo parla del potere «che va da Perugia a Orvieto a Roma a Mosca a New York agli universi». Da Orvieto… agli universi. Qui manca di stabilirsi una gerarchia, perché per il fronte popolare cosmico tutti i compagni contano, e i compagni vengono interessati da qualunque lotta, qualunque vertenza che abbia connotazioni di sinistra.
Paolo si riferisce continuamente a lotte e parti del mondo che i media italiani trascurano quasi del tutto: molto spesso parla di Timor Est, dice: «Abbiamo vinto a Timor est» o altre frasi del genere; parla del Congo, di conflitti dimenticati, di lotte ignorate che grazie alla cornice del fronte popolare cosmico vengono portate alla nostra attenzione, eterogeneamente, egualitariamente: quel che accade a Timor Est equivale il fatto che il tuo vicino di casa sia diventato consigliere di quartiere. Le serate organizzate da un circolo culturale di Orvieto equivalgono la colonizzazione di altri pianeti per avere basi comuniste extraterrestri.
Questo modo di inquadrare la questione serve a farci pensare e immaginare fuori dal settarismo e dallo sconfittismo che affliggono la sinistra. Paolo evita di menzionare il settarismo e lo sconfittismo, ma tutto il suo sforzo concettuale e stilistico è teso a generare il loro superamento. Paolo ci invita a parlare e ascoltare, a interessarci e ragionare nei termini di una tradizione rivoluzionaria comune, che ci accomuna tutti al di là delle differenze contingenti, del fatto che Tizio sta in questo partito o collettivo e Caio sta in un altro. L’ipotesi è: veniamo tutti dallo stesso posto, e tutti noi cerchiamo di andare nello stesso posto, e questi tentativi, differentii l’uno dall’altro, comunque possono coesistere nel cosmo. Il cosmo è un tutto che manca di omologarsi, è totalità fatta di molteplicità.
Paolo evita sistematicamente di essere eurocentrico. In Rivoluzione usa un aggettivo che appartiene al campo semantico della geografia fisica:

la ridislocazione a livello terzomondista su posizione di radicalità dei programmi degli esecutivi, la centralità indiretta a livello australe della progressività a sinistra della programmazione.
«Australe», ovvero: che sta sotto l’Equatore. «Australe» è la dimensione del Sud del mondo. Paolo evita di pensare in termini di «borealità», cioè di superiorità rispetto all’Equatore. Nel brano citato, sta dicendo che molte cose si giocano nel Sud del mondo, ma lo dice in un modo che «interessa», che spinge a fermarsi e pensare.
Ripetizione: l’emozione è altissima
Se il compagno è leggendario, l’emozione è sempre altissima. Nell’italiano piatto di ogni giorno diremmo «emozione grandissima», ma nella lingua vintiana l’emozione si innalza. Si innalza per congiungersi con le galassie sociali. Un’emozione grandissima può essere d’ingombro, occupare spazio un po’ di qua e un po’ di là, espandersi senza una direzione. Un’emozione altissima si erge, si costruisce piano dopo piano, ha a che fare con una progettualità. Nella sua declamazione La meraviglia cubana:


Paolo dice che «la meraviglia cubana è altissima». L’ipotesi è: in tutta la storia della lingua italiana, prima di Paolo tutti avevano mancato di unire le parole in quel modo.
In «emozione altissima» c’è un’eco di un altro filosofo e poeta umbro, Francesco d’Assisi. «Altissima povertà». Il riferimento è certamente intenzionale. Si è fatto notare che Paolo è una figura fortemente francescana, di quel francescanesimo precedente al recupero da parte della chiesa ufficiale. Altri che conoscono meglio l’argomento potranno sviluppare questa connessione.

Derivazione: sfidare la parodia
Tramite un processo di derivazione, Paolo inventa parole – soprattutto sostantivi – che, pur essendo grammaticalmente plausibili, arrivano all’orecchio come sorprese. Parole che possono sembrare parodie di quelle che usiamo ogni giorno, corrono il rischio della caricatura, come egli stesso, Paolo, corre il rischio della caricatura nei suoi anni di predicazione in strada. Ecco un elenco molto parziale:
Parallelità. Superazione. Doppietà. Discotecità. Videicità. Amorabilità. Cadenzialità. Sospensionalità. Architteturicità. Arcipelagicità. Spettatricità. Combaciavità. Vacanziarietà. Componenzialità. Consistenzializzarsi.

Questo per quanto riguarda l’aggiunta di suffissi, cioè delle parti finali delle parole. Più di rado, Paolo aggiunge prefissi. E’ il caso di «postcedente» usato come sinonimo di «successivo».
Partendo dalla derivazione, Paolo si impegna in un gioco a incastri durante il quale gruppi di parole si trasforma, si permutano creando sequenze trascinanti dal punto di vista ritmico e inebrianti per la continua invenzione di concetti.

E’ il moltiplicatore del possibile
è il possibilismo della nuova umanità
la dinamo della possibilità dell’esecutività rivoluzionaria
La potenza dell’evocazione del figurativo nella rivoluzione
E’ il moltiplicatore del possibile
il generare del possibilismo della nuova umanità
la dinamo della possibilità dell’esecutività rivoluzionaria
il volano dell’energia
l’apertura del ciclo della rivoluzione
la formazione del ciclo accumulazione di energia-esecutivo-crisi-rivoluzione
E’ la produzione della produttività
il produttivismo moltiplicato
E’ il dispositivo fondamentale dell’evolversi
il minimo comune denominatore dell’operazione
l’ipotesi dell’osmosi tra governo e rivoluzione
le fondamenta dell’aprire
il basamento del rifondare della società
il centro della nuova traiettoria rivoluzionaria
il comitato di base del vertice rivoluzionario
l’ipotizzare della tesi della rivoluzione

In questo brano interagiscono cinque gruppi di parole, corrispondenti a cinque campi semantici.
1. Campo semantico della possibilità: «possibile» «possibilità», «possibilismo».
2. Campo semantico della rotazione/energia: «dinamo», «volano»
3. Campo semantico della produzione: «produttività», «produzione», «produttivismo».
4. Campo semantico della dialettica: «ipotesi», «ipotizzare», «tesi».
5. Campo semantico della costruzione: «basamento», «vertice», «rifondare».
Congiungendo e facendo ruotare le parole appartenenti ai cinque campi, Paolo crea delle sorte di «rime concettuali», motivi che ritornano all’orecchio, ogni volta simili ma diversi. In questo modo fa volare l’immaginazione, chi ascolta viene interessato, trascinato nel testo.
Cosa intende Paolo per «produzione della produttività»? E per «produttivismo moltiplicato»?
L’ipotesi è: si produce sempre realtà. Il latino «pro-duco» significa «portare innanzi», «portare davanti». Quelle che Paolo ci porta davanti è una realtà ricca di senso e di sensi. Lo dice all’inizio: «è il moltiplicatore del possibile».
Già, ma cosa è il moltiplicatore del possibile? In tutto il brano riportato, il soggetto rimane sottinteso: «è» – voce del verbo essere, terza persona singolare – inizia la sequenza e sul suo ritorno si costruisce l’ennesima anafora di Paolo, mancando di prodursi un soggetto.
Qualcosa di simile si trova in una vecchia canzone di Gianfranco Manfredi, Ma chi ha detto che non c’è. In luogo di «è», qui c’è «sta»:

Sta nel sogno realizzato
sta nel mitra lucidato
nella gioia nella rabbia
nel distruggere la gabbia
nella morte della scuola
nel rifiuto del lavoro
nella fabbrica deserta
nella casa senza porta
Tutta la sequenza dipende da quello «sta» iniziale, ma cosa «sta»? L’ipotesi è: ciò che per Manfredi «sta», è la stessa cosa che per Paolo «è». La rivoluzione. Il comunismo. La sovversione. La liberazione. La congiunzione con le galassie sociali. Di cos’altro parla e scrive e vive Paolo nella sua esistenza che è «ipotesi di rivoluzione ipotizzabile»?
L’incontro
Un vecchio album di Sergio Endrigo e Vinicius de Moraes si intitolava La vita, amico, è l’arte dell’incontro. Qual è la situazione che tutti noi associamo (coniughiamo) a Paolo? È l’incontro. L’incontrarlo, l’averlo incontrato per la via. Paolo che ti chiama dall’altra parte della strada, che ti chiama per incontrarti. Nella poesia «La verità» Paolo scrive due versi «con verbalizzazione implicita», due versi folgoranti:
L’accoglienza come inevitabile
la gentilezza come centrale
Qui c’è veramente tutto Paolo, il cosmo di Paolo. In un’altra poesia, «L’inizio», Paolo descrive la propria uscita di casa, e lo fa così:
I movimenti del soggetto
si fanno da lenti a modulati verso
velocità più elevata
il susseguirsi della dinamica
cadenza le operazioni
di passaggio
dalla casa all’esterno
controllo unito a velocità
storia delle ultime ore
coniugata al progetto della giornata
il profumo dei vani
l’aroma di caffè e tabacco
la musica, il televisore
costituiscono l’atmosfera che si lascia
introducendosi nella metropolitaneità
L’uscita di casa
ospita l’entrata nella via.
«L’uscita di casa / ospita l’entrata nella via». La via è casa del soggetto, anche più della casa stessa. L’uscita di casa ci ospita, noi veniamo accolti non quando entriamo in casa ma quando ne usciamo, perché è fuori di casa che si vive davvero, la vera casa è Corso Vannucci, sono le strade, le piazze. Uscire di casa è un’azione che compiamo una o più volte al giorno e ci sembra un’azione semplice, ma è una semplicità apparente, perché ogni volta manchiamo di sapere cosa troveremo fuori. Abbiamo aspettative, ma possono essere tradite in qualunque momento, può succederci qualunque cosa, è possibile qualunque incontro. Noi andiamo incontro all’incontro. Ogni uscita di casa è potenziale avventura. Quasi tutte le poesie di Paolo descrivono scene di vita di piazza, di caffè, ma grazie al suo linguaggio si trasfigurano e ci interessano, toccano qualcosa di universale (nel senso di cosmico).
La veggenza come progetto
Una delle cose che più ricordiamo di Paolo, anche grazie all’anafora, è il suo uso del futuro: «si vincerà» Il poeta è un veggente, il poeta vede nel futuro. Il primo a recuperare quest’immagine nella modernità fu Arthur Rimbaud, che ad appena sedici anni, nel 1871 (l’anno della Comune di Parigi) scrisse un testo seminale, che a distanza di qualche decennio avrebbe ispirato tutte le avanguardie novecentesche. Il testo è convenzionalmente noto come «La lettera del veggente». Eccone un estratto:
Arthur Rimbaud
Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di pazzia; egli cerca se stesso, esaurisce in se tutti i veleni per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto – e il sommo Sapiente! – Egli giunge infatti all’ ignoto ! Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di chiunque altro! Egli giunge all’ignoto e anche se, smarrito, finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, almeno ne avrà viste! […]
Dunque il poeta è veramente un ladro di fuoco.
Ha l’incarico dell’umanità, degli animali addirittura; dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che riporta di laggiù ha forma, egli darà forma; se è informe, darà l’informe.
Trovare una lingua;
– Del resto, dato che ogni parola è idea, verrà il tempo di un linguaggio universale! […] Questa lingua sarà dell’anima per l’anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori; pensiero che aggancia il pensiero e che tira. Il poeta definirebbe la quantità di ignoto che si desta nell’anima universale del suo tempo: egli darebbe di più – della formula del suo pensiero, della notazione della sua marcia verso il Progresso! Enormità che si fa norma, assorbita da tutti, egli sarebbe veramente un moltiplicatore di progresso! Quest’avvenire sarà materialista, lo vede. Sempre piene di numero e di armonia, queste poesie saranno fatte per restare.
I poeti francesi che a partire dal contenuto di questa lettera agiteranno la più importante avanguardia letteraria del Novecento, ovvero il surrealismo, avranno episodi di veggenza. Uno su tutti, André Breton, in un libro del 1925 intitolato L’Amour fou:
certe persone si dicono convinte che la guerra abbia loro insegnato qualcosa. Ne sanno in ogni caso meno di me che so cosa mi riserva l’anno 1939.
Viktor Velemir Chlebnikov 
Nel ’25 Breton preconizza gli sconvolgimenti del ’39, l’anno in cui inizierà la seconda guerra mondiale. Il linguaggio poetico racchiude tutti i possibili. Azzardando, si può ottenere un’anticipazione. E’ come se il poeta uncinasse il tempo e tirasse, e quell’uncino è il linguaggio. Un altro poeta delle avanguardie storiche, il cubofuturista russo Viktor V. Chlebnikov, in un testo del 1912 intitolato «Maestro e allievo» scrive: «non dovremmo aspettarci la caduta di uno stato nel 1917?», cioè l’anno della Rivoluzione d’ottobre. Nel 1914 ripete quell’azzardo in una raccolta di scritti futuristi intitolata Schiaffo al gusto del pubblico: suo il testo conclusivo, intitolato «Uno sguardo all’anno 1917», dove si elencano eventi a venire, tra cui la caduta di diverse grandi potenze, Russia compresa. Il testo è firmato: «Qualcuno 1917». Il poeta è un veggente.
Ecco che quel «come previsto» ripetuto da Paolo comincia a risuonare in testa in modo diverso. Ecco che quel «si vincerà» diventa elettrico.
Nella declamazione su Cuba citata poc’anzi, inclusa nell’album Cosmo Rosso, Paolo dice:
Una volta Fidel disse: «Noi diremo il giorno, il mese e l’anno in cui prenderemo il potere a Cuba», e poi lo ha realizzato. Questo significa che la rivoluzione cubana fa parte di un progetto, ha fatto parte e farà parte di un progetto.
Che questo aneddoto sia vero oppure apocrifo, è in ogni caso perfetto, perché illumina la coniugazione di veggenza e progetto. La veggenza evita di essere un tirare a indovinare: deriva da uno «sregolamento» del linguaggio «lungo e ragionato», durante il quale il poeta diventa «il grande infermo», si spinge in un «laggiù» e ne torna con l’incarico di cercare la lingua universale. La lingua del fronte popolare cosmico. La lingua che uncini la realtà e il futuro e li tiri verso di noi. Dunque la veggenza è un progetto, un progetto tenacemente perseguito. E’ un predisporsi per rimanere aperti a ogni possibile, compreso quello di prevedere nel 1925 l’anno esatto in cui scoppierà la seconda guerra mondiale, o prevedere nel 1912 l’anno esatto in cui cadrà il regime degli Zar.
«Laggiù»
Un’altra celeberrima immagine di Arthur Rimbaud dà il titolo a una sua prosa poetica: «Una stagione all’inferno».
Tutti gli articoli e le testimonianze su Paolo da giovane, Paolo leader del movimento studentesco di Perugia, Paolo militante di Democrazia Proletaria, contengono riferimenti molto discreti, mai invasivi, all’ipotesi di una stagione all’inferno. Ad un certo punto, nella vicenda di Paolo, c’è materia che si addensa sull’orlo di un buco e in quel buco noi manchiamo di sapere cosa ci sia. Paolo torna da un «laggiù», e torna veggente. Tutti fanno riferimento ai due anni trascorsi a Berlino ovest, dicono che quegli anni lo hanno cambiato, che è tornato dalla Germania diverso, smarrito. Da quella misteriosa discesa agli inferi, della quale manchiamo di sapere, Paolo riemerge da «grande infermo», sentendosi di avere in carico l’intera umanità. Perciò si impegna a ricostruirsi come persona, a trovare la lingua adatta e a dare corpo all’ipotesi Paolo Vinti: quella di un filosofo di strada e poeta veggente. Veggenza che è parte, è stata e farà parte di un progetto. Tesi, ipotesi, sintesi. Traiettoria, consistenza, realizzazione. Pensiero, idea, programma. Teoria, ideologia, rivoluzione. Cosmo rosso. Cosmo, libertà ed uguaglianza.

Tra Bologna e Perugia, novembre 2011 – novembre 2012.

sabato 28 novembre 2015

Uomini o macchine: Poletti e Confindustria incatenano il lavoro


schiavi catenedi Stefano Porcari (redazione Contropiano)

Intervenendo alla Luiss, ossia l’università privata della Confindustria, il ministro del lavoro Poletti ha esternato di nuovo con le sue pessime suggestioni. Dopo aver cercato di mettere una pezza alla gaffe sull’inutilità della laurea per gli ultraventenni, ieri è andato alla carica contro i contratti di lavoro. Poletti ha affermato che bisogna "immaginare un contratto che non abbia come unico riferimento l'ora-lavoro, ma la misurazione dell'apporto dell'opera. La misurazione ora-lavoro è un attrezzo vecchio e frena rispetto ad elementi di innovazione".
Il lavoro, ha spiegato Poletti, è "un po' meno cessione di energia meccanica ad ore ma sempre risultato. Con la tecnologia possiamo guadagnare qualche metro di libertà". Secondo il ministro del Lavoro si tratta di un tema di cultura su cui lavorare.
E' ormai noto che nel nostro e negli altri paesi a capitalismo avanzato, stia crescendo in modo rilevante la disoccupazione tecnologica ossia il lavoro sottratto da macchine automatiche al lavoro umano. Una pacchia per i padroni che si ritrovano a disposizione forza lavoro che non sciopera, non si ammala, non va in ferie, non va in maternità. Ma se le macchine automatiche si prendono il lavoro che fine fanno i lavoratori? Esiste dunque il problema delle conseguenze della disoccupazione tecnologica sia sul versante sociale di chi viene espulso dal lavoro, sia di chi rimane a lavorare avendo come "colleghi" dei robot. Poletti a questo punto ha anticipato quanto da tempo si discute sia in Confindustria sia a livello della European Round Table of Industries: chi rimane a lavorare in fabbriche o aziende ad alta o media automazione deve vedersi cambiare radicalmente le condizioni e il contratto di lavoro.
Dunque quelle di Poletti sono elaborazioni originali di un ministro? No, è un input della Confindustria che a tale scopo si appresta a far partire una offensiva materiale – ma anche ideologica – sull’automazione e l’introduzione di macchine e robot nella produzione.
C’è infatti una perfetta coincidenza tra le esternazioni del ministro Poletti e i quindici giorni di pubblicazioni che il Sole 24 Ore intende dedicare proprio alle “meraviglie” dell’uso dei robot nella produzione e nelle modalità di vita quotidiana. “Vi vogliamo guidare da oggi per quindici giovedì consecutivi in un viaggio nel futuro che è già dentro le vostre case e i vostri pensieri, al lavoro e in famiglia, ma senza che ce ne rendiamo fino in fondo conto e, soprattutto, senza percepire quanto potrà ancora di più incidere questo pezzo di futuro, con le sue invenzioni e le sue macchine più o meno intelligenti, nella nostra vita quotidiana” scrive il giornale della Confindustria che ha affidato il compito alla squadra che da anni gestisce l’inserto scientifico del quotidiano “Nova 24”. Un inserto interessantissimo, per molti versi affascinante, ma che – come hanno cercato di spiegare in questi anni in diversi saggi Guglielmo Carchedi, Francesco Piccioni, Carlo Formenti – concepisce la scienza come armamento della lotta di classe e della subalternità e non come emancipazione complessiva, soprattutto dal lavoro salariato.
Un aspetto, questo della specializzazione produttiva delle industrie italiane nelle macchine automatiche, che contrasta fortemente con i bassi indicatori generali che lo Stato e imprese dedicano a ricerca e sviluppo. “L’Italia è un Paese di innovatori, ma ancora prima la seconda manifattura d’Europa, il genio e il talento di un unicum assoluto dove si mescolano scienza e digitale con arte, che vuol dire creatività, design, moda, artigianato, ma anche più propriamente con il manufacturing e, cioè, quel mix inimitabile e tutto italiano di bellezza e tecnologia, il segno di una cultura cosmopolita” scrive il Sole 24 Ore, sottolineando che nel nostro paese esiste un triangolo industriale d’eccellenza che sta macinando profitti nonostante la crisi. “Qui, dove tra Milano, Torino, Emilia e pezzi sparsi ma importanti, ci sono catene di imprese che fanno del nostro Paese il secondo produttore d’Europa e tra i primi cinque al mondo”. Esiste dunque una parte di questo paese che si è posizionato fuori dalla crisi sociale, dalla deindustrializzazione mirata perseguita in questi venti anni da governi e autorità europee. Il problema è che in passato il combinato disposto tra innovazione tecnologica, specializzazione produttiva ed esportazioni in qualche si ripercuoteva positivamente sul resto della società. Oggi che l’appropriazione privata della ricchezza prodotta è arrivata a livelli mai raggiunti nell’ultimo secolo, questo “input” sta producendo solo disoccupazione tecnologica crescente, bassi salari, aumento della giornata lavorativa; esattamente il contrario di quello che la scienza dovrebbe e potrebbe produrre nella società liberandola dal lavoro salariato. Ma qui stiamo parlando di alternative, di quel socialismo concepito proprio con presupposti e obiettivi antagonisti a quelli del capitalismo dominante.

Filosofia della laurea di Poletti Giuliano, perito agrario di Roberto Ciccarelli

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Poletti Giuliano, perito agrario e ministro del lavoro, va preso sul serio quando invita a laurearsi subito con un voto da schifo o a lavorare gratis al mercato. In un paese dove gli imprenditori non sono laureati (come Poletti), e si rivalgono sui figli di nessuno, il progetto è la guerra all’intelligenza collettiva.
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Poletti Giuliano, perito agrario non laureato è un ministro del lavoro con le idee chiare per risolvere la disoccupazione dei laureati: “Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21″ ha detto sollevando le solite polemiche.
La guerra ai giovani
Bisogna prenderlo sul serio, Poletti Giuliano, perito agrario non laureato. Nel corso del suo mandato ha sviluppato un pensiero nel merito. «Troppi tre mesi di vacanze scolastiche — ha detto a marzo 2015 — Magari un mese potrebbe essere passato a fare formazione». «Non troverei niente di strano se un ragazzo lavorasse tre o quattro ore al giorno per un periodo preciso durante l’estate, anziché stare solo in giro per le strade».
Non bisogna farsi irretire dall’immaginario di questo emiliano, cresciuto nella burocrazia imprenditoriale delle coop rosse, che coltiva l’immaginario paternalistico contro i giovani immancabilmente vagabondi, scioperati o, più elegantemente, “Choosy”. L’immaginario in questione è comune alla classe dominante. Choosy fu l’epiteto rivolto da Elsa Fornero, già ministra del lavoro nel governo Monti e docente ordinaria a Torino, contro i laureati che non scelgono un lavoro qualsiasi e, anzi, lo pretendono commisurato alle competenze maturate nel corso degli studi. “Sfigati” furono definiti i fuoricorso dal viceministro del lavoro Michel Martone, dello stesso governo. «I fuoricorso hanno un costo anche in termini sociali» aggiunse Francesco Profumo, ministro dell’Istruzione coevo.
Con Monti a Palazzo Chigi ci fu una violenta offensiva contro i laureati, e i giovani dai 15 ai 34 anni in generale. Il messaggio fu immediatamente recepito da un’altra docente universitaria mandata a dirigere il ministero dell’Istruzione con il governo Letta. «Non voglio più che gli studenti italiani arrivino a 25 anni senza aver mai lavorato un solo giorno nella loro vita» disse Maria Chiara Carrozza.
Filosofia Poletti
Poletti Giuliano, perito agrario non laureato, ha tuttavia una visione del mondo molto precisa. Filosofica, addirittura. “In Italia — ha sottolineato — abbiamo un problema gigantesco: è il tempo. I nostri giovani arrivano al mercato del lavoro in gravissimo ritardo. Quasi tutti quelli che incontro mi dicono che si trovano a competere con ragazzi di altre nazioni che hanno sei anni meno di loro e fare la gara con chi ha sei anni di tempo in più diventa durissimo”. “Se si gira in tondo per prendere mezzo voto in più — ha insistito il ministro — si butta via del tempo che vale molto molto di più di quel mezzo voto. Noi in Italia abbiamo in testa il voto, non serve a niente”. Il voto è importante solo perché fotografa un piccolo pezzo di quello che siamo; bisogna che rovesciamo radicalmente questo criterio, ci vuole un cambio di cultura”.
Può piacere o no, ma qui c’è una visione economica del tempo, del mercato, della subordinazione, della competizione al ribasso sul costo del lavoro. C’è un’idea di posizionamento del mercato italiano nelle parti basse o bassissime sulla scena internazionale. C’è l’idea di fare i “cinesi d’Europa”, proprio quando i cinesi progettano (da tempo) di produrre tecnologia ad alto contenuto di valore e di esportarle in Occidente. La nemesi, voluta da una classe dirigente tragicamente incosciente, ma conseguente con i tagli Gelmini a scuole e università che hanno agevolato la disoccupazione e il crollo dei laureati. Come sostiene l’Ocse qui. 
Lavorare subito, competere, disciplinare alle nuove regole del mercato del lavoro italiano: professionalizzare l’istruzione nei settori a basso contenuto tecnologico-relazionale e precario. Un classico in un paese arretrato, brutale, ignorante dove gli imprenditori non sono laureati (come Poletti che ha diretto Lega Coop dal 2002 al 2013 e l’Alleanza delle cooperative dal 2013 al 2014) e si rivalgono sui sottoposti, i non affiliati, i figli di nessuno.
Poletti rappresenta un ceto senza for­ma­zione ter­zia­ria avan­zata — gli imprenditori — che hanno dato vita a una strut­tura impren­di­to­riale a gestione fami­liare (il 66% con­tro il 36% della Spa­gna e il 28% della Ger­ma­nia), inca­pace di «valo­riz­zare il capi­tale umano», l’innovazione del lavoro e l’internazionalizzazione dell’impresa. Più che inve­stire sul lavoro e sulla for­ma­zione, il governo sta pre­miando i mec­ca­ni­smi di reclu­ta­mento di tipo fami­li­stico che, secondo il rap­porto, sono dif­fusi in que­sta tipo­lo­gia di aziende. Così la mobi­lità sociale resta il sogno degli illusi della meritocrazia. I dati citati sono di un rapporto Almalaurea.
Una filosofia non supportata dai dati
Il problema di Poletti, e dei suoi ispiratori, è che non leggono i rapporti che pure darebbero ragione alla loro impostazione professionalizzante dell’istruzione terziaria, e in particolare del mitologema tutto italiano: l’alternanza “scuola-lavoro” come lavacro del fallimento delle riforme dell’università.
Quando parla del valore del voto Poletti confonde la laurea triennale con la magistrale. Per l’Ocse l’Italia produce il 20% di minilaureati contro la media del 17%. Queste persone vanno subito a lavorare. Il problema, segnala l’Ocse, è che solo il 42% dei giovani si iscriverà ai programmi d’istruzione terziaria. Siamo terzultimi, con Lussemburgo e Messico.
Cosa fanno, invece, gli studenti universitari durante gli studi? Anche qui c’è una sorpresa. Le statistiche Alma Laurea hanno evidenziato da tempo un boom di stage e tirocini (+36% dal 2004), i ragazzi lavorano, sono sempre più precari, si guadagnano da vivere, con l’aiuto dei genitori.
I giovani che sono attaccati, vilipesi, umiliati lavorano prima, durante e dopo la laurea. E lavorano precariamente e con redditi bassi per non dire inesistenti. La campagna di Stato contro l’università, contro la laurea come strumento per avere uno stipendio leggermente superiore al diploma, continua. Non importa che le sue tesi siano false. Le statistiche, e addirittura la realtà non contano nulla. Dal 2008 a oggi, con i tagli, e poi con lo svuotamento di senso dell’istruzione, si persegue una precisa idea del lavoro: non pagato, sottopagato, grigio. Un lavoro da schiavi, un’istruzione irrilevante per i suoi scopi.
E’ la guerra all’intelligenza collettiva. Questo è il progetto.

Dalla Siria alla guerra al cervello Di ilsimplicissimus


l-aereo-russo-abbattuto-dalla-turchia_507785Nei talk show, come nei peggiori bar di Caracas, la ragione è abolita e poco importa se nei primi il servilismo scorre a fiumi al posto del rum nei secondi: così questioni complesse divengono nenie infantili e qualunque cosa ponga dei dubbi sulle versioni ufficiali diventa complottismo. Una categoria nella quale fino a qualche anno fa erano inclusi i culti degli alieni, le trame degli illuminati di Baviera e le scie chimiche, ma che ora include qualsiasi ragionamento preveda delle conclusioni e non venga troncato di netto per evitarle. E’ in qualche modo la stessa traiettoria semantica che ha subito il populismo il quale  è passato dall’indicare posizioni puramente pre politiche a qualsiasi affermazione che non concordi col pensiero unico.
Così se due giorni fa qualcuno avesse detto – sulla base delle informazioni fornite dalla stessa Turchia – che l’abbattimento del caccia russo era un gratuito atto di guerra avvenuto non nei cieli turchi e a fronte di uno sconfinamento che se anche fosse avvenuto sarebbe stato di pochi secondi, ma in quelli siriani, sarebbe stato accusato di complottismo. Del resto la credibilissima amministrazione americana aveva fatto sapere che “la Turchia ha il diritto di difendersi” e ubi maior cerebrum cessat. A distanza di 48 ore la situazione si è ribaltata e la medesima amministrazione, non ufficialmente, ma attraverso una soffiata alla Reuter ha fatto sapere che in effetti hanno ragione i russi e torto marcio i turchi: il Su 24 di Mosca non ha mai sconfinato ed è comunque stato abbattuto nello spazio aereo siriano.
Un cambiamento di posizione inaspettato e incomprensibile alla luce del fatto che eventi del genere sono ormai controllati in tempo reale via satellite. Ma una volta preso atto del giro di valzer di Washington, che cambia completamente le carte in tavola, sembra impossibile andare oltre e domandarsi le ragioni dell’evento. Il fatto che Ankara abbia provocato deliberatamente e senza ragione la Russia portando a una situazione pericolosissima il mondo intero, ci dice che Erdogan, avvitatosi peraltro in una ridicola, se non penosa spirale di contraddizioni e di auto smentite, difficilmente potrebbe aver agito da solo senza consultarsi con il padrone del vapore e senza concordare una mossa che lo ha fatto ingenuamente cadere in una trappola. Ciò che interessava agli Usa era la conseguenza che l’abbattimento portava, ossia le contromisure russe tra cui il congelamento dei rapporti commerciali e tecnologici con la Turchia, compreso il turkish stream ovvero il gasdotto che bypassa i Balcani tutti in mano statunitense: Washington, si sa,  vuole tagliare i rapporti energetici fra Europa e Russia e con questo “suggerimento” a Erdogan ha ottenuto esattamente ciò che voleva.
Il cambiamento di versione e un certo ufficioso riavvicinamento alla Russia, assolutamente obbligatorio per evitare di essere sbugiardati prima o poi dai tracciati di volo, non influisce più di tanto sui risultati sperati, ma è funzionale ad impedire che tra le misure di ritorsione di Mosca ci sia anche un rifornimento di armi al Pkk  aumentando la posta e l’efficacia della ribellione curda contro il potere di Ankara. Questo di certo non piace a Washington nelle cui esplicite intenzioni c’è  la creazione di un Kurdistan su territori siriani e iracheni a totale trazione americana, magari guidato dal fantoccio Barzani, che funga da base per il dominio mediorientale. Un progetto che potrebbe incontrare non poche difficoltà se il popolo curdo riconoscesse anche nella Russia un proprio alleato, liberandosi almeno in parte dall’ingombrante tutore.
Ora Putin non è così ottuso come la stampa occidentale e ha mantenuto la calma per poter ripagare gli Usa e Ankara con la stessa moneta: probabilmente da una parte non fermerà il turkish stream che peraltro è vitale per lo sviluppo dell’economia turca e dall’altra rifornirà il Pkk. La sua sarà una vendetta asimmetrica come le guerre dell’impero.
Adesso però mi chiedo se non sia stato eccessivamente complottista a cercare di comprendere gli eventi e dar loro un senso. Forse sì, dopotutto l’unico vero complotto è il “magna e tasi” della grande informazione che fa la sua guerra al cervello.

"Luttwak e Poletti sono dei reazionari. La loro visione del mondo fa venire i brividi". Intervento di Giorgio Cremaschi

Chissà perché in questi giorni ho finito per associare Edward Luttwak a Giuliano Poletti.
Sono due persone diversissime per storia cultura e esperienze, l'uno intellettuale militante dell'imperialismo USA , l'altro burocrate un poco rozzo del pentitismo comunista. Sono persone normalmente lontanissime eppure le loro uscite di questi giorni sui mass media italiani me li hanno fatti sembrare assai vicini. Il primo a La7 ha rivendicato con orgoglio il sostegno degli Stati Uniti ai talebani e a ciò che ne è seguito. È stato un buon affare comunque, ha detto, perché in Afghanistan è crollata l'Unione Sovietica è così l'Occidente ha visto sconfitto il suo principale nemico.
Il secondo ha dichiarato inutili le lauree con alti voti, magari conseguite in ritardo, e poi ha rivendicato la necessità di superare il concetto stesso di orario di lavoro, sostituendolo con la retribuzione a prestazione.
Io trovo che entrambi abbiano brutalmente descritto la verità. Per Luttwak la guerra si fa per conquistare potere e chi la vince, qualsiasi mezzo usi, ha sempre ragione. Non troveremo in lui le ributtanti ipocrisie sulle guerre umanitarie e democratiche. Le guerre servono a tutelare precisi interessi e per questo devono essere astute e spietate. Le guerre di Luttwak sono quelle del capitalismo liberista e globalizzato di oggi, quello santificato da George Bush padre allorché dichiarò: il nostro sistema di vita non è negoziabile e verrà difeso in tutti i modi.

Giuliano Poletti deve esercitare qualche ipocrisia in più, vista la professione, ma alla fine non scarseggia in brutalità. Il suo attacco al 110 e lode corrisponde ad un mercato del lavoro nel quale i giovani laureati vanno a fare le polpette ai MCDonald, naturalmente nascondendo il titolo di studio altrimenti non verrebbero assunti. A che serve studiare tanto se i lavori che vengono offerti non corrispondono minimamente alla cultura acquisita? Poco tempo fa ho conosciuto un ricercatore universitario che, stufo di fare la fame, aveva rilevato la bancarella del padre ai mercatini. Poletti sta semplicemente cercando di adeguare le aspettative scolastiche alla realtà del mercato del lavoro. Nel quale serve soprattutto una piccola istruzione di base adatta alla nostra società mediatica e consumista. Solo ad una élite rigidamente selezionata, quasi sempre su basi censitarie, sarà consentito di lavorare esercitando le competenze apprese in lunghi studi. Per la maggioranza dei giovani studiare troppo è tempo buttato. Come aveva lamentato Berlusconi, non può essere che anche l'operaio voglia il figlio dottore. Le controriforme della scuola di Gelmini e Renzi hanno cominciato ad adeguare, con i tagli, il sistema formativo al mercato del lavoro fondato su precariato e disoccupazione di massa. Meglio studiare meno e prepararsi ai lavoretti precari che verranno offerti, piuttosto che accumulare rabbia per una laurea non riconosciuta da nessuno.

Anche sull'orario di lavoro Poletti ha in fondo detto la verità. La globalizzazione finanziaria, l'euro, le politiche di austerità hanno progressivamente distrutto le secolari conquiste del mondo del lavoro. Che per avere un orario definito per la propria prestazione e ridotto a dimensioni umane e legato ad una retribuzione dignitosa, ha speso 150 anni di lotte e miriadi di vittime. Oggi tutto è in discussione e non perché il lavoro non abbia più bisogno delle tutele conquistate, ma perché il capitale ha trovato la forza di distruggerle. Consiglierei a Poletti, che non pare persona particolarmente colta, la lettura di Furore di John Steinbeck. È la storia di una famiglia che, durante la crisi degli anni 30 negli USA, è costretta a migrare e a trovare lavoro a cottimo. E arrivano in una azienda ove si raccolgono le cassette di arance a cinque centesimi l'una, senza orario di lavoro e se non va bene via.

Il New Deal keynesiano di Roosevelt si rivolse anche contro quel sistema di sfruttamento, che oggi non a caso viene invece riproposto nell'Europa in cui, con l'austerità, trionfa il liberismo e si distruggono lo stato sociale e i diritti del lavoro.
Luttwak e Poletti sono dei reazionari, la loro visione del mondo fa venire i brividi e fa tornare indietro di secoli, ma non hanno inventato nulla. Ciò che dicono corrisponde a ciò che si fa realmente nelle nostre società malate. Quindi più che per le loro parole conviene mostrare scandalo per la realtà che cinicamente descrivono e difendono. E soprattutto conviene, quella realtà, provare a cambiarla.

Il Monsignore, la Madonna e il postribolo



Dal sostegno a Berlusconi all’epoca del processo Ruby all’augurio di morte a Papa Francesco. Pontifica, insulta, sputa sentenze. Ossessionato dal satanismo, dall’omosessualità e dal mondo giovanile. Fino all’islamofobia e alla nostalgia delle Crociate. Un ritratto senza sconti dell’Arcivescovo di Ferrara Luigi Negri, esponente di primo piano di quella parte più retriva del mondo cattolico oggi dominante in Emilia Romagna.

di Alessandro Somma

C’erano una volta Peppone e don Camillo, comunista vecchio stampo l’uno e prete partigiano l’altro, emblemi dell’eterna lotta tra il diavolo e l’acqua santa cui si è tradizionalmente assistito nella Regione rossa per eccellenza: l’Emilia-Romagna. C’erano, perché nel tempo il fronte dei comunisti vecchio stampo è stato rimpiazzato da un ceto politico selezionato per la sua vicinanza ideologica ora con la classe imprenditoriale, ove presente, ora con la cultura cattolica, diffusa nelle aree a vocazione agricola. Anche dalle parti di don Camillo, però, si sono avute trasformazioni epocali. Nell’Emilia-Romagna delle cooperative rosse oramai in combutta con le cooperative bianche, la geografia del potere clericale ha assunto tinte fosche: quelle della parte più retriva del mondo cattolico, premoderna e antilluminista, pronta a contrastare la liberazione dell’umano da ordini sovraumani repressivi, per questo omofoba, islamofoba, misogina e in genere antropologicamente incapace di provare empatia per tutto quanto non sia contemplato dal dogma.

Insomma, da alcuni anni la Chiesa emiliano-romagnola è controllata da Comunione e liberazione, il movimento fondato da don Giussani che, dopo anni di emarginazione, è riuscito finalmente a invadere la stanza dei bottoni. Fu Papa Wojtyla, nella seconda parte del suo pontificato, a contribuire in modo significativo a questo risultato, nominando i ciellini Carlo Caffarra Arcivescovo di Ferrara e Comacchio nel 1995 e di Bologna nel 2004, e Luigi Negri Vescovo di San Marino e Montefeltro nel 2005. Fu invece Papa Ratzinger, nel 2012, a individuare come Vescovo di Reggio Emilia e Guastalla un altro devoto di don Giussani: Massimo Camisasca. La città di Giuseppe Dossetti è così ora in mano allo storiografo ufficiale del fondatore di Cielle, già cappellano del Milan di Sacchi, nonché zio di Michele Camisasca: per anni dirigente del personale presso la Regione Lombardia di Roberto Formigoni, che gli attribuì l’incarico sulla base di un concorso poi ritenuto illegittimo dalla Corte dei Conti.

Si deve a Papa Ratzinger anche la nomina ad Arcivescovo di Ferrara-Comacchio di Negri, il quale evidentemente a quel punto si vide lanciato sulle orme di Caffarra: proiettato, dopo il pensionamento di quest’ultimo, verso la poltrona di Arcivescovo di Bologna prima e di Cardinale poi, posizione dalla quale imporre al meglio le pesanti mani cielline sulla Regione. Solo dieci giorni dopo l’insediamento di Negri nel marzo 2013, però, Mario Bergoglio viene eletto Papa e questi ha evidentemente disegni diversi da quelli in linea con i desiderata dei discepoli di don Giussani. Tanto è vero che, pensionato Caffarra, nomina Arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi: un cosiddetto “prete di strada” affezionato alle aperture del Concilio vaticano II, che anzi ritiene debbano finalmente essere messe in pratica.

Ecco ricostruito lo sfondo della vicenda che ha recentemente attirato l’attenzione mediatica su Negri, per le frasi strillate a volto paonazzo durate un viaggio in treno e riportate da alcuni testimoni al Fatto quotidiano[1]. Passi per la frase di astio nei confronti del Concilio vaticano II, e in particolare per uno dei suoi più noti ispiratori, Giuseppe Dossetti, reo di aver “distrutto la chiesa italiana”: è una frase che non stupisce, in linea come è con i punti di riferimento culturali del suo autore. Passi anche per la promessa, fatta a Caffarra, che lui farà vedere al prete di strada “i sorci verdi”, che se non altro documenta la resistenza del sodalizio ciellino nella buona e nella cattiva sorte.

Difficile invece soprassedere a quanto detto da Negri a proposito del Papa che gli ha sottratto l’osso, a cui augura niente meno che di passare a miglior vita: “speriamo che con Bergoglio la Madonna faccia il miracolo come aveva fatto con l'altro”, ovvero con Papa Luciani, morto a poco più di un mese dal suo insediamento. Il tutto, con atteggiamento tanto isterico da valere una confessione, confermato prima e smentito poi nell’arco di poche ore, nel corso delle quali si registra un’unica costante: la richiesta di un “incontro filiale” con il Papa, con l’intenzione di “aprirgli il cuore”, si spera quello dell’Arcivescovo e comunque solo metaforicamente.

Non è la prima volta che Negri la fa fuori dal vaso. Aveva fatto parlare di sé prima di arrivare a Ferrara, ad esempio per il suo sostegno incondizionato a Berlusconi all’epoca del processo Ruby: era il plurinquisito, il libertino e bestemmiatore di sempre, ma se non altro era tenero nei confronti dei mitici valori non negoziabili tanto cari all’integralismo cattolico. Di qui l’attacco all’arma bianca contro i Pubblici ministeri del processo di Milano, considerati l’emblema di una magistratura mai così “prepotente”. Nessuna indignazione, invece, per le cosiddette cene eleganti di Arcore: “l’indignazione non è un atteggiamento cattolico”, mentre “la moralità dei politici va giudicata dall’impegno nel perseguimento del bene comune che consiste nel benessere del popolo e nella libertà della Chiesa”, ovvero nella difesa dei valori non negoziabili[2].

Si salvi dunque il Signore di Arcore, e si salvino pure i politici eletti con voti ciellini puntualmente finiti sotto inchiesta per lo scandalo della sanità regionale lombarda, Formigoni in testa: ha “fatto cose straordinarie”, come “il sistema sanitario, il buono scuola, la libertà di educazione”, motivo per cui non va giudicato per “le camicie sgargianti e le vacanze costose”[3]. Si rifiuti invece la comunione a Rosy Bindi e a Romano Prodi, rei di aver sostenuto il disegno di legge sui Dico, i “diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi” e dunque anche delle coppie omosessuali: disegno mai approvato, nonostante fosse un compromesso al ribasso tra cattolici integralisti e il resto del mondo, che l’allora Vescovo di San Marino e Montefeltro ritenne comunque un atto “eversivo dell’antropologia personale e familiare”[4].

È però dopo l’arrivo a Ferrara, quando cioè Papa Bergoglio gli scombina i piani, che Negri si inacidisce e dà il meglio di sé. La città lo accoglie festante, con le autorità tutte impegnate a dargli il benvenuto, mentre gli immancabili suonatori e sbandieratori del palio fanno da colonna sonora e da coreografia al suo trionfale ingresso in cattedrale. Lui, però, non mostrerà gratitudine alcuna per cotanta pronitudine: ricambierà dedicando ai fatti della vita cittadina e nazionale esternazioni colme di odio e intolleranza, evidentemente buone solo a esorcizzare inquietati pensieri ossessivi. Siccome gli esempi sono assai numerosi, ci dovremo limitare a riportare quelli che meglio consentono di tratteggiare il profilo umano e culturale del Monsignore.

Tra le ossessioni più presenti figura senz’altro quella per il satanismo, alla cui lotta Negri dedica molto tempo e molte energie, in particolare quelle indispensabili a visionare pellicole che potrebbero costituire propaganda di riti luciferini. E’ così che nasce la polemica del maggio 2013 su “Le streghe di Salem”, il film di Rob Zombie ritenuto “un misto di satanismo, oscenità, offese alla liturgia e alle realtà ecclesiali”[5]. Ma al ciellino non basta la condanna morale: occorre che da essa discendano rigide norme di comportamento indirizzate all’umanità. Di qui la scelta di istituire una commissione di giuristi incaricata di verificare la possibilità di querelare nientepopodimeno che lo Stato italiano, reo di aver vietato la visione della pellicola ai soli minori di quattordici anni e non al creato tutto.

I giuristi devono avergli consigliato di lasciar perdere, ma il Monsignore non si è perso d’animo. Avendo recentemente scoperto, probabilmente con la lente di ingrandimento, il numero 666 a fianco di una croce capovolta disegnata con un pennarello su un marmo all’ingresso della sua cattedrale, ha pensato bene di ricordare che Ferrara registra una presenza satanica di tutto rispetto: ben tre le sette attive, “tutte legate al mondo giovanile”[6]. Ne avrà sicuramento parlato in occasione della sua recente lectio magistralis al corso di esorcismo organizzato presso l’Università europea di Roma, l’ateneo dei Legionari di Cristo, una congregazione il cui fondatore verrà ricordato per la sua virulenta pedofilia.

Chissà se in quell’occasione Negri ha esorcizzato anche la sua principale ossessione: il mondo giovanile, con la tensione verso la libertà che esprime, la forza di rompere gli schemi che sprigiona, l’apertura verso il nuovo e il diverso che rivendica, tutte caratteristiche decisamente inconciliabili con l’antropologia ciellina. Non stupisce allora che semplici scene da una movida siano percepite come raffigurazioni di apocalittici convegni carnali: “ho visto scene di sesso tra due ragazzi e un gruppo, evidentemente ubriaco, coinvolto in atteggiamenti orgiastici”. Di qui la lunga e stucchevole polemica sulla piazza antistante la cattedrale trasformata in postribolo, che prende corpo nel luglio del 2013. Il Monsignore la introduce con una sorta di excusatio non petita: tiene a precisare che non sa come sia fatto un postribolo. Subito dopo, però, evidentemente con la forza dell’intuito, ipotizza che esso abbia esattamente l’aspetto di un gruppo di giovani impegnati nella movida: “non ho mai visto un postribolo, ma l'idea era quella”. Il tutto mentre i bar che danno da bere ai giovani, che quindi li ubriacano e li spingono a tenere orge sotto le stelle, si trovano guarda caso in locali di proprietà della curia. Evidentemente, e fortunatamente, anche per Negri pecunia non olet.

A non puzzare sono anche i preti pedofili, quelli sì luciferini distruttori di gioventù. Nell’ottobre del 2013 il programma televisivo Le iene ha raccontato la storia di Erik Zattoni, nato dallo stupro subìto dalla madre all’età di 14 anni, quando fu violentata da don Pietro Tosi, all’epoca parroco di Cornacervina in provincia di Ferrara, che la ospitava assieme alla sua famiglia in un appartamento di proprietà della parrocchia. Per anni Erik ha cercato di portare alla ribalta questa storia di atroce e squallida violenza, venendo però ostacolato da don Pietro con la complicità dei suoi superiori. Dopo anni di omertà e soprusi, incluso l’allontanamento dall’appartamento in cui era ospitato, riesce però solo a ottenere il riconoscimento della paternità grazie a un esame del dna disposto dal tribunale. Di qui la richiesta alle gerarchie ecclesiastiche, affidata ai microfoni di Italia1, di ottenere quantomeno un risarcimento morale: la riduzione dello stupratore allo stato laicale.

Ebbene, Negri ha condannato l’atrocità compiuta da don Pietro: non poteva certo fare altrimenti. Ma si è anche premurato di chiudere la strada a una possibile riparazione non solo morale: “la Chiesa, nei confronti dei sacerdoti, non si configura affatto come un datore di lavoro, che interverrebbe nelle vicende di carattere giuridico, economico e civile”, sicché “non ha nessun obbligo a risarcimenti o ad azioni analoghe”. Con l’occasione il Monsignore trova anche spazio per un esercizio di macabra ironia, evidentemente utile a esorcizzare un’altra delle sue ossessioni, quella per cui il mondo intero vuole distruggere la Chiesa cattolica: “l’Arcivescovo ci tiene a precisare, al fine di evitare spiacevoli equivoci in futuro, che non ha avuto nessuna parte nella dichiarazione della prima guerra mondiale e neppure della seconda, e certamente non si è inteso con il presidente americano per lo sgancio della bomba atomica sul Giappone”[7].

Si sa che le gerarchie ecclesiastiche non sono interessate a tutelare la vita, a meno che non sia quella spenta dello stato vegetale e prenatale: in tal caso si dedicano alla sua difesa con lo zelo tipico degli ottusi. Negri lo fa proponendo un accostamento esilarante, che mette insieme l’immancabile condanna dell’aborto con una lettura davvero originale dell’attuale crisi economica. Sarebbe cioè colpa della legge sull’aborto se l’economia va male: la legge “non ha consentito di venire al mondo a oltre sei milioni di italiani, e la scarsità di figli ci ha fatto sprofondare in questa crisi economica”[8].

La dichiarazione è di tale portata da provocare persino reazioni oltreoceano: il Washington Post la riporta con un certo stupore, unito alla constatazione che la disciplina italiana dell’aborto viene comunque boicottata da un sospetto e costante aumento dei medici che praticano l’obbiezione di coscienza[9]. Evidentemente persino negli Stati Uniti, Paese assuefatto all’integralismo cattolico, non si possono lasciare impunite idiozie come quelle che il pastore a capo della diocesi di Ferrara e Comacchio ama confezionare per la gioia del suo gregge.

E che dire dell’ossessione di Negri per l’omosessualità, condannata con i toni virulenti tipici di chi tenta di reprimere un inconsapevole istinto che il raziocinio rifiuta di assecondare? Difficile altrimenti spiegarsi i ripetuti richiami, tanto cari all’integralismo cattolico, alla cosiddetta ideologia transgender, che esprimerebbe una “insana pretesa di sopprimere la differenza sessuale separandola da qualsiasi indicazione naturale, per ridurre la stessa sessualità a pura istintualità”[10]. Il tutto mentre non è questa ideologia a essere rivendicata dalla cultura laica, bensì l’attenzione per l’ottica di genere: l’emersione della complessità delle relazioni tra i sessi e la sua traduzione in politiche attente alle identità delle persone. Ma questo è esattamente ciò che Negri rifiuta quando attacca la legge contro l’omofobia, sobriamente ritenuta “un delitto contro Dio e contro l’umanità” e soprattutto un attentato alla “grande tradizione eterosessuale dell’occidente”[11].

Infine l’ossessione per l’islam, barbarie in procinto di travolgere la Cristianità, alla base di una cronica chiusura verso il dialogo con i musulmani, che Negri rifiuta perché si risolverebbe in un “dialogo unilaterale” con chi “non ha nessuna volontà, né intenzione, né disponibilità a dialogare”[12]. Senti chi parla, verrebbe da dire, ma lo stupore è fuori luogo. Il Monsignore è infatti un difensore delle Crociate, un nostalgico dei tempi in cui i cattolici potevano assicurarsi con le armi “la possibilità dei grandi pellegrinaggi in Terra Santa”. Certo, le Crociate sono state una fase buia e violenta nella storia della Chiesa, ma per Negri si tratta di un dettaglio trascurabile, comunque meno imbarazzante del “pacifismo d’accatto” impossessatosi dei “cattolici che sfilano egemonizzati dai sindacati”[13].

La Ferrara di un tempo non avrebbe tollerato i deliri di Negri o di un qualsiasi altro invasato dai comportamenti così molesti. I suoi predecessori erano del resto avvertiti, dal momento che sulla facciata del Municipio, proprio di fronte alle finestre dell’appartamento privato del Vescovo, era affissa, e lo è tuttora, una lapide che ricorda come “cessata la violenza delle armi straniere nel giorno 21 giugno 1859, Ferrara fu libera dalla signoria dei Pontefici e partecipò ai nuovi destini della Nazione”. Siamo però nel 1892, l’anno in cui Filippo Turati fondava a Genova il Partito socialista, l’epoca in cui la laicità dello Stato veniva tenuta in alta considerazione. Ora la musica è decisamente un’altra: ai deliri vescovili sul postribolo a cielo aperto, che meriterebbero quantomeno di essere ignorati se non fatti oggetto di colorite invettive, l’amministrazione comunale ferrarese risponde con l’offerta di realizzare una protezione del sagrato della cattedrale. Il tutto alla modica cifra di trentamila euro, ovviamente offerti dal contribuente, a testimonianza di quanto gli sia cara cotanta tracotanza clericale.

Insomma, Luigi Negri semina vento ma non raccoglie tempesta. Pontifica, insulta, sputa sentenze, ma riesce sempre a evitare di trovarsi in posizioni scomode: come nell’immagine, tratta dalla pagina facebook del Direttore di estense.com, che lo ritrae durante un’esibizione delle sentinelle in piedi mentre dimostra la sua solidarietà standosene comodamente seduto, all’ombra del campanile della cattedrale. Chissà se le ultime sparate finiranno per complicargli la vita, o se invece contribuiranno a renderlo un punto di riferimento per il cattolicesimo retrivo. Contribuendo un giorno, una volta compiuto il miracolo della Madonna, a farlo diventare il Papa nei cui confronti Woytyla e Ratzinger sembreranno due incalliti teologi della liberazione.

NOTE

[1] L. Mazzetti, Papa Francesco, il vescovo ciellino di Ferrara: Bergoglio deve fare la fine dell’altro Pontefice, www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/25/papa-francesco-vescovo-cl-di-ferrara-bergoglio-deve-fare-la-fine-dellaltro-pontefice/2251753.

[2] Caso Ruby, mons. Luigi Negri: Mai vista una magistratura così prepotente. E i cattolici evitino di contribuire al clima d’odio, www.tempi.it/caso-ruby-mons-luigi-negri-mai-vista-una-magistratura-cosi-prepotente-e-i-cattolici-evitino-di-c#.Vlfx1nYvcgt.

[3] Negri: Formigoni ha fatto cose straordinarie. La stampa è contro Cl perché contro la Chiesa, www.tempi.it/negri-formigoni-ha-fatto-cose-straordinarie-la-stampa-e-contro-cl-perche-contro-la-chiesa#.VlfyuHYvcgs.

[4] C. Antonini, Il vescovo ciellino: Vade retro satana, sei un sessantottino, http://popoffquotidiano.it/2015/04/15/il-vescovo-ciellino-vade-retro-satana-sei-un-sessantottino.

[5] M. Zavagli, Il vescovo scomunica Le streghe di Salem: E’ blasfemo. Pronto a denunciare lo Stato, www.ilfattoquotidiano.it/2013/05/05/il-vescovo-scomunica-le-streghe-di-salem-e-blasfemo-pronto-a-denunciare-lo-stato/584134.

[6] M. Pradarelli, Ferrara, ordine pubblico e satanisti. Negri: nessuno mi ascolta, http://lanuovaferrara.gelocal.it/ferrara/cronaca/2015/10/25/news/ferrara-ordine-pubblico-e-satanisti-negri-nessuno-mi-ascolta-1.12327115.

[7] Caso Erik Zattoni, la risposta del vescovo, www.estense.com/?p=335673.

[8] M. Celeghini, Negri: La legge contro l’omofobia è delitto contro Dio e l’umanità, www.estense.com/?p=436801.

[9] R. Noack, Abortions caused Italy’s economic crisis, archbishop claims, www.washingtonpost.com/news/worldviews/wp/2015/02/05/abortions-caused-italys-economic-crisis-archbishop-claims.

[10] F. Terminali, Il vescovo Negri ai cattolici: reagite alla teoria gender, http://lanuovaferrara.gelocal.it/ferrara/cronaca/2015/03/20/news/il-vescovo-negri-ai-cattolici-reagite-alla-teoria-gender-1.11087253.

[11] C. Antonini, Madonnina fai che Bergoglio… Riecco monsignor Negri, http://popoffquotidiano.it/2015/11/25/madonnina-fai-che-bergoglio-riecco-monsignor-negri.

[12] L. Negri, Un esame di coscienza che l'Occidente deve ancora fare, www.lanuovabq.it/mobile/articoli-un-esame-di-coscienza-che-loccidente-deve-ancora-fare-14438.htm#.VleGLHYvcgs

[13] C. Antonini, Madonnina fai che Bergoglio, cit.