lunedì 27 febbraio 2017

Grande è la confusione sotto il cielo.... di Alfonso Gianni, Il Manifesto del 26.02.2017

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Qualcuno sembra trarre un respiro di sollievo alla notizia che i sondaggi danno sempre come primo il Partito Democratico, attestato, secondo SWG, sul 28% in declino nel giro di una settimana di tre punti. Anche il M5Stelle perde, ma meno, dal 26,2 al 25,3%. Questo dato in particolare consolerebbe i renziani. Difficile condividere un simile irresponsabile ottimismo. Non solo perché si devono ancora diradare le nebbie e depositare le polveri perché il normale cittadino possa orientarsi nel nuovo confuso quadro dell’offerta politica. Per questo è certamente prematuro inseguire i sondaggi, che registrano peraltro un alta percentuale di non risposte. Ma soprattutto perché non è questo il metro di misura per giudicare quello che succede. In realtà siamo di fronte alla crisi definitiva di un progetto politico. Quello iniziato con Veltroni che voleva fare del Pd un partito a vocazione maggioritaria autosufficiente, ponendo così nel discorso del Lingotto del 2007 le basi per la caduta del secondo governo Prodi.
Ora il Partito di Renzi è andato a sbattere contro il voto popolare del 4 dicembre. Un voto denso di motivazioni democratiche e sociali. Non a caso i giovani e il Mezzogiorno sono stati i due artefici della sconfitta della controriforma costituzionale. Gli stessi contro cui si abbatte il conclamato fallimento del Jobs act, certificato dai dati Inps che ci raccontano che nel 2016 il numero dei nuovi contratti “stabili” è crollato del 91% rispetto all’anno prima. Diminuiti gli incentivi sono spariti i posti di lavoro. Il rapporto di lavoro precario torna a farla da padrone. Con i suoi tassi di sfruttamento bestiale, come è stato evidenziato nel caso tragico di Paola Clemente morta di fatica nelle campagne pugliesi. Reclutata da un’agenzia interinale, forma moderna dell’antico sempre persistente caporalato. Si comprende bene perché il governo tema il referendum sui voucher e sui subappalti e nicchi rispetto all’obbligo che la legge gli impone di fissare la data per l’effettuazione.
Di fronte a questo dramma le tempeste in atto nel quadro politico restano confinate in un bicchiere d’acqua. Che si determini una vera e propria scissione, o che nel Pd sia in atto un’implosione a scoppio ritardato o una lunga diaspora, ha importanza relativa – se non per i singoli protagonisti. Così come dove effettivamente si accasino quelli se ne sono andati via da Sinistra Italiana a congresso aperto, dal momento che non lo sanno neppure loro. Il nuovo condottiero, Giuliano Pisapia, può forse drenare voti in uscita dal Pd e da Sel, ma non resuscitare il cadavere del centrosinistra. Del resto anche chi decide di abbandonare Renzi – non sto parlando delle continue giravolte di Emiliano – lo fa senza esprimere una leggibile passione ideale e politica, così da rimanere senza popolo. E’ incredibile che qualcuno pensi che ci si possa appassionare, appena varcata la soglia dei locali riservati agli addetti ai lavori, alla data del congresso o alle modalità delle primarie, quando le questioni della vita quotidiana ruotano attorno ai grandi temi del lavoro, in particolare per i giovani (già ci siamo dimenticati della sconvolgente lettera di Michele, morto suicida a trent’anni), della mancanza di reddito, della povertà, del disastro della scuola, come della sanità, dell’assoluta incertezza nel futuro.
Un tempo ci si aggrappava alla celebre citazione di Mao “Grande è la confusione sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente”. Non era sempre così neppure allora, ma oggi di vero è rimasta solo la prima parte. Confusione tanta, ma situazione pessima.
Eppure una via d’uscita c’è sempre. Anche in questo difficile caso. La vittoria del No è stato il frutto di una insorgenza democratica, ove le idee di società legate al dettato costituzionale hanno fatto momentanea egemonia anche sulle destre che brandivano il referendum per scopi puramente politicisti. In quello scontro è tornato a manifestarsi, legando assieme i temi costituzionali con quelli sociali, un popolo di sinistra, con una forte incidenza giovanile. Si sono creati centinaia di comitati popolari sul territorio che non hanno alcuna intenzione di sciogliersi e reclamano una legge elettorale proporzionale per dare vita a un parlamento legittimo costituzionalmente. L’operazione da fare è quindi capovolgere il punto di partenza. Neppure una lista elettorale, per quanto necessaria, ci salverà. Bisogna partire dalla capacità di relazione con un rinnovato popolo di sinistra – nel quale è così qualitativamente rilevante il protagonismo femminile – prima che dalla costruzione di un nuovo soggetto della sinistra di cui pure abbiamo estremo bisogno. Perché quest’ultimo senza il primo è privo di fondamenta, esposto ai venti più flebili.

domenica 26 febbraio 2017

Politica, ideologia, realtà di Franco Astengo



Un bell’intervento dell’editore Giuseppe Laterza (titolare della casa editrice che pubblicò Benedetto Croce) apparso su la Repubblica del 25 febbraio scorso affronta, sotto il titolo “Ma la politica non è morta”, un tema assolutamente fondamentale.
Laterza mette in discussione, infatti, un punto decisivo partendo da una valutazione molto precisa “Dopo la caduta del muro di Berlino in effetti si brindò non solo alla fine dell’ideologia comunista ma di tutte le ideologie, considerandole camicie di forza del pensiero, strumenti di autoritarismo culturale e politico. Molti liberali non consideravano la loro come ideologia: la intendevano piuttosto come l’unica concessione del mondo possibile per chi avesse a cuore la libertà”.
La conclusione che Laterza trae da questo assunto la si trova più avanti nel testo: “Date per morte tutte le ideologie, la maggioranza dei professionisti della politica ha smesso da tempo di citare i libri che ha letto mentre si dedica con passione ad inseguire i ritmi e le logiche della comunicazione televisiva. Siamo alla politica del giorno per giorno, la cui agenda è dettata dai sondaggi e in cui la personalità dei capi fa premio sulla qualità dei programmi”.
Insiste Laterza “Certo, bisogna fare una rivoluzione culturale. Compito molto difficile ma (la storia ci dice) non impossibile. E oggi quanto mai necessario”.
Un discorso antico, quello di Laterza, ma sempre attuale e che pone un interrogativo: come si passa dalle idee alle opinioni e dalle opinioni all’azione politica?
Attraverso quali strumenti d’iniziativa culturale, di aggregazione sociale, di raccolta di consenso, di formazione e sviluppo delle decisioni a tutti i livelli?
Interrogativi ai quali fornivano una risposta le grandi agenzie e le grandi strutture politiche organizzate, i partiti, le fondazioni culturali, i sindacati: soggetti oggi tutti azzerati nella pratica dall’omologazione avvenuta attorno al feticcio dell’immagine intesa quale esaustivo veicolo per condurre al potere in tutti i campi.
Nel frattempo sono cresciute le contraddizioni, si sono spazzati i fili dell’intreccio sociale, non esiste più rapporto tra progresso, sviluppo, eguaglianza : anzi quel rapporto si è rovesciato in un quadro di assoluta dequalificazione dell’agire politico.
Restiamo in Italia.
Ormai la condizione culturale del Paese è talmente ai minimi termini laddove la situazione si presenta in queste condizioni:
  1. Nel 2015 si stima che le famiglie residenti in condizione di povertà assoluta siano pari a 1 milione e 582 mila e gli individui a 4 milioni e 598 mila (il numero più alto dal 2005 a oggi).
    L’incidenza della povertà assoluta si mantiene sostanzialmente stabile sui livelli stimati negli ultimi tre anni per le famiglie, con variazioni annuali statisticamente non significative (6,1% delle famiglie residenti nel 2015, 5,7% nel 2014, 6,3% nel 2013); cresce invece se misurata in termini di persone (7,6% della popolazione residente nel 2015, 6,8% nel 2014 e 7,3% nel 2013).
    Quest’andamento nel corso dell’ultimo anno si deve principalmente all’aumento della condizione di povertà assoluta tra le famiglie con 4 componenti (da 6,7 del 2014 a 9,5%), soprattutto coppie con 2 figli (da 5,9 a 8,6%) e tra le famiglie di soli stranieri (da 23,4 a 28,3%), in media più numerose.
  2. I nuovi dati riguardano l’Italia nel 2016 arrivano dall’Ocse, che nel suo rapporto sulle disuguaglianze calcola che l’1% più benestante della popolazione della Penisola detiene il 14,3% della ricchezza nazionale netta, praticamente il triplo rispetto al 40% più povero, che detiene solo il 4,9 per cento degli attivi totali. La crisi ha inoltre accentuato le differenze, dato che la perdita di reddito disponibile tra il 2007 e il 2011 è stata del 4% per il 10% più povero della popolazione e solo dell’1% per il 10% più ricco. Quanto ai redditi, nel 2013 il 10% più ricco della popolazione guadagnava undici volte di più del 10% più povero.
    La ricchezza nazionale netta, riporta ancora l’organizzazione parigina, in Italia è distribuita in modo molto disomogeneo, con una concentrazione particolarmente marcata verso l’alto. Il 20% più ricco (il cosiddetto “primo quintile”) detiene infatti il 61,6% della ricchezza e il 20% appena al di sotto (secondo quintile) il 20,9%. Il restante 60% si deve accontentare del 17,4% della ricchezza nazionale, di cui appena lo 0,4% per il 20% più povero.
    Anche nella fascia più alta, inoltre, la distribuzione è nettamente squilibrata a favore del vertice. Il vertice della piramide, cioè 5% più ricco della popolazione, detiene infatti il 32,1% della ricchezza nazionale netta, ovvero oltre la metà di quanto detenuto del primo quintile, e di questa quasi la metà è in mano all’1% più ricco.
  3. 40,1 è il tasso di disoccupazione giovanile in Italia 22%, è la percentuale media di disoccupazione giovanile nell’Eurozona 19,4%, è il tasso di disoccupazione giovanile avuto in Italia nel 2007, uno dei tassi più bassi mai registrati.
    Uno dei grandi problemi del nostro Paese è sicuramente la disoccupazione giovanile (15-24 anni), un male non solo economico ma anche psicologico e culturale per i giovani italiani. Le cause della disoccupazione sono ricondotte al sistema scolastico, ai cattivi collegamenti fra scuola e impresa, ad una diffusa mentalità anti-impresa e alla criminalità organizzata .Secondo una rilevazione datata dicembre 2015, il tasso di disoccupazione in Italia è del 37,9%, in Germania del 7%, in Grecia del 48,6%. Il tasso medio dell’Eurozona è del 22%.
    Nel 2007 il nostro Paese ha avuto un livello di disoccupazione basso (disoccupazione giovanile al 19,4%, disoccupazione totale al 5,9%) a dimostrazione della cattiva conduzione della cosa pubblica così come è stata attuata in Italia nella fase delle crisi della globalizzazione a causa del processo di finanziarizzazione dell’economia e di crescita dei conflitti armati nel mondo.
Dove si sviluppa allora, nella situazione data, la battaglia delle idee in Italia: non certo rispetto ai temi che Laterza suggerisce nel suo intervento (che in realtà appare del tutto anomalo rispetto al quadro politico – culturale corrente) ma attorno al tetto degli stipendi alla RAI fissato in 240.000 euro all’anno e al riguardo del quale alcuni inamovibili che si aggirano attorno ai 2 milioni protestano e c’è chi argomenta che riducendo i compensi come previsto dalla legge la RAI finirebbe “fuori mercato”.
E’ questo il livello drammatico della situazione nella quale ci troviamo e questo il livello infimo della discussione di merito che si sta sviluppando: ben oltre lo scenario delle mosse delle contromosse che il vieto politicismo corrente ci sta mostrando.
Non ci si venga, alla fine, a replicare che descrivere le cose in questo modo (come effettivamente stanno) alla fine alimenta il cosiddetto populismo (le cui espressioni meramente verbali, nel caso italiano, alla fine risultano tra l’altro complici della conservazione di quel potere che ha costruito il disastroso stato di cose in atto).
Non servirebbe forse portare avanti un’ideologia alternativa a quella dominante (che non vuol definirsi tale) adottata da tutti e che ha portato a questi esiti?

giovedì 23 febbraio 2017

Tumulti corporativi di Militant


Non è certo per casualità che la reazione corporativa dei tassisti sia brodo di coltura dell’estrema destra. Se ha ancora un senso storico l’attualizzazione del concetto di fascismo (non quello di neofascismo, attenzione), questo si ritrova esattamente nei tumulti corporativi dei tassisti, a Roma come in Italia, in Europa e nel resto del globo. E’ la reazione ad una perdita di status socio-economico quella che spinge i tassisti alla mobilitazione. Ma se fosse solo questo, potrebbe apparire speculare alla difesa degli altri innumerevoli diritti sociali calpestati dal liberismo. In realtà, per i tassisti il nocciolo della questione non è la lotta alla “sharing economy” o alle varie articolazioni del capitalismo pervasivo globalizzato: ogni tassista infatti, al di fuori del proprio problema corporativo, è ben contento di aumentare il proprio apparente potere d’acquisto girando il mondo con le compagnie low fares, pernottando su Airbnb, prenotando la cena su Foodora o Deliveroo, scaricando musica da Spotify, spostandosi con Blablacar, e via elencando le innumerevoli altre applicazioni che “disintermediano” il rapporto tra “produttore” e “consumatore”. Non fossero direttamente coinvolti, non avrebbero problemi neanche a servirsi di Uber, ovviamente fuori dal proprio territorio lavorativo. Alla protesta tassista, ovvero al fascismo in essa contenuta, non interessa e anzi viene esplicitamente rifiutato il discorso generale di critica dell’economia politica contemporanea. Ai tassisti interessa unicamente difendere il proprio status economico, che è quello di una piccola borghesia che vede perdere il proprio potere di rendita stabilito dalla licenza. Una licenza per cui si sono indebitati, e che li avrebbe dovuti trasformare, nei sogni di gloria di questa borghesia pezzente, in rentier post-litteram. Questo investimento viene ora messo in crisi dalle trasformazioni del capitalismo liberista, che per definizione spezza ogni piccola rendita di posizione che non sia fondata sulle grosse concentrazioni finanziarie. Il resto dei rapporti sociali non verrebbero minimamente intaccati dall’eventuale vittoria della lobby tassista sul governo. E’ una mobilitazione ad uso e consumo di una categoria, non generale né generalizzabile. L’esatto opposto delle vertenze sindacali, che nello stesso momento in cui risolvono un problema particolare (la singola vertenza), guadagnano diritti per tutta la società salariata. Questa la differenza tra protesta sindacale e lobbismo corporativo: quest’ultimo si caratterizza come reazione a una perdita del privilegio, non allargamento dei diritti erga omnes.
Ovviamente, alle spalle della retorica sulla sharing economy si nasconde il frutto avvelenato del più complessivo attacco ai diritti sociali dei lavoratori salariati. Un attacco che non avviene “per decreto”, non è cioè volontà politica di questo o quel soggetto ideologico. Sta, al contrario, nella dinamica stessa del capitalismo, che innovando costantemente il proprio modo di riproduzione fa macerie delle modalità non più utili alla valorizzazione del profitto. Uber, come il resto della sharing economy, non è stato “inventato” o concepito assecondando qualche linea politica: è l’inevitabile traiettoria del capitalismo nella sua forma liberista contemporanea. I tassisti, in questo simili al mondo artigianale dei mestieri dileguatosi alla fine dell’Ottocento, non possono più essere compresi nel flusso economico-produttivo dell’economia globale. Per questo spariranno, nel senso che rimarranno come curiosità turistica, ma perderanno ogni funzione reale nella mobilità urbana. Come i risciò in Cina, chi ne deterrà il monopolio continuerà magari a guadagnarci, ma trasformando il proprio ruolo da centrale a marginale. D’altronde, il fordismo non ha certo estinto il piccolo o medio artigianato. Ne ha cambiato semplicemente di segno: da modello produttivo-riproduttivo tipico di una certa società, a fantasia elitaria per ristrette cerchie abbienti della popolazione.
Questo non si traduce evidentemente in una resa alla pervasività di un liberismo che tende apparentemente alla “condivisione” riproduttiva, in realtà al controllo monopolistico dei fattori di produzione. Ma è una battaglia politica, non corporativa contro questa o quella fastidiosa applicazione post-moderna. Ed è, per ciò stesso, una battaglia generale contro un modello produttivo, che non preveda fughe all’indietro verso bei mondi antichi, ma la capacità di controllo di quei flussi del capitale oggi completamenti anarchici e, proprio per questo, controllati dal capitale più grande su quello più piccolo. Non ci sarà alcuna resistenza che non passi dal controllo pubblico, cioè politico, su quei flussi del capitale. Ma questo è proprio ciò che i tassisti non vogliono, perché manderebbe in crisi le fondamenta su cui si basa quel sogno di gloria di questa borghesia pezzente: mimare un modo di riproduzione capitalistico senza possederne i capitali. 

martedì 21 febbraio 2017

Basta frasi scarlatte e demagogia. Il comunismo e la politica sono cose serie di Ramion Mantovani


Il nostro X Congresso è un congresso di un partito che ha resistito, che è sopravvissuto a numerosi tentativi di liquidarlo (dall’esterno e dall’interno), che ha elaborato un’analisi delle contraddizioni economiche e sociali originale e confermata dall’evoluzione, della crisi, che ha ostinatamente insistito su una linea politica unitaria per il conflitto e nella sfera ineludibile della rappresentanza elettorale ed istituzionale.
Credo sia noto che io sono d’accordo con il 1° documento. Che mi sembra all’altezza del compito, che è frutto di una elaborazione collettiva non improvvisata, che contiene punti aperti ad approfondimenti dell’analisi e della discussione e che, con gli emendamenti collegati, anche su punti controversi colloca ed incanala la nostra discussione futura in un ambito di ricerca analogo, se non identico, a quello che attraversa tutte le forze comuniste e di sinistra radicale in Europa.
Non è su questo, quindi, che mi soffermerò in questo modesto contributo.
Nei congressi si vota. E spesso, purtroppo, si vota senza aver studiato i documenti e aver discusso approfonditamente. Tornerò più avanti sulle cause che hanno prodotto un tale impoverimento dei livelli di militanza e di direzione politica. Ma intanto voglio subito dire che questo limite innegabile richiederebbe, da parte di tutti, una maggiore serietà, onestà intellettuale e modestia nella discussione.
Evitando di utilizzare facili suggestioni, demagogia, semplificazioni ed altri espedienti ancor più nocivi ancorché apparentemente utili a conquistare voti. Per il semplice motivo che producono divisioni artificiali, impediscono l’approfondimento della discussione e soprattutto cristallizzano posizioni astratte ed incomunicanti fra loro. Il cui primo effetto nefasto è quello di allontanare dal partito militanti che non hanno nessuna voglia di doversi iscrivere ad una fazione in perenne lotta con altre.
Per evitare fraintendimenti voglio chiarire che considero questo impoverimento un problema generale, che riguarda tutte le culture politiche e posizioni e su cui, ripeto, tornerò alla fine di questo scritto.
Tuttavia mi pare proprio di rintracciare questo problema negli argomenti usati nel 2° documento per contrapporsi al 1°.
Spero mi si perdoni la schematicità ed anche l’incompletezza dell’esposizione che farò, soprattutto perché questo mio scritto non sarà breve. Ma perseguo esplicitamente l’obiettivo di enucleare i punti che a me paiono viziati dagli espedienti di cui sopra.
1) il primo è quello che giustifica l’esistenza stessa del 2° documento. Ed è forse il più importante perché inerisce la stessa concezione del partito e della sua dialettica interna.
Nel 2° documento si dice: “A partire da questa importante premessa abbiamo proposto di svolgere un congresso unitario e a tesi, non di conta, non di riaffermazione di maggioranza e minoranza, non di ripetizione di noi stessi: di fare, invece, di questo congresso un momento di rivoluzione e rifondazione di noi stessi. Di rivoluzione e rifondazione, a partire dai noi, come ci ha insegnato il femminismo. In breve, abbiamo proposto un congresso unitario che consentisse la costruzione di una elaborazione teorica condivisa a partire dalle pratiche, un bilancio della nostra storia recente e un confronto circoscritto sulle differenze nella linea politica attraverso le tesi. Abbiamo provato a rendere possibile un congresso diverso: i numeri non ce lo hanno permesso. Di certo un congresso diverso non è possibile con un regolamento che di fatto invita alla presentazione di documenti contrapposti non garantendo alcuna rappresentanza proporzionale alle tesi. In un congresso unitario a tesi non ci possono essere padroni di casa e ospiti di cui “tenere conto”. Se la maggioranza di questo gruppo dirigente preferisce sedersi dalla parte della ragione dei numeri, ci sediamo orgogliosamente e gioiosamente dalla parte del torto.”
Mi spiace doverlo dire in modo crudo ma questo argomento è purtroppo un imbroglio bello e buono.
Un classico espediente demagogico
molte volte usato nella storia del movimento operaio, sintetizzabile nel detto “grida all’unità e prepara la divisione”, per scaricare sugli altri la colpa di una divisione che si promuove ed apparire unitari allo stesso tempo.
Fondo questo mio giudizio su due argomenti. Uno banalmente materiale e tecnico ed uno squisitamente politico.
Da un punto di vista materiale è impossibile attribuire una rappresentanza proporzionale a tesi alternative presentate a corredo di un documento di tesi complessivo. Per il semplice motivo che ogni tesi è diversa e può insistere su punti di analisi, di proposta o di aggiunta.
Va da sé che se si è d’accordo sull’impianto di un documento e sulla linea politica complessiva ma non su un punto di analisi anche importante e si propone, su quel punto, una tesi alternativa, non si potrà pretendere che su quella tesi alternativa, e su ognuna delle altre possibili tesi alternative si elegga una rappresentanza proporzionale negli organismi dirigenti. È impossibile materialmente.
Il principio del “tener conto” dei voti ottenuti da emendamenti o tesi alternative che dir si voglia non è discriminatorio. Al contrario serve a far si che quella posizione, anche se minoritaria, sia rappresentata negli organismi dirigenti in modo che si possa procedere ad approfondire la discussione. È invece impossibile che diverse tesi alternative, che possono per altro essere totalmente contraddittorie fra loro, ottengano una rappresentanza proporzionale.
In altre parole, per esempio, se c’è un documento considerato base comune da tutti e poi otto tesi alternative che ottengono ognuna una certa percentuale di voti, come si fa ad eleggere proporzionalmente un organismo dirigente? Chi rappresenterà il/la militante che avrà votato una o due tesi alternative e contro le altre?
Confesso che sento un certo imbarazzo a dover spiegare cose così elementari.
Ma non c’è solo un impedimento materiale all’elezione proporzionale di organismi dirigenti sulla base di emendamenti o tesi alternative.
C’è anche un punto politico sostanziale.
Se si sostiene che l’unità della sinistra si deve costruire dal basso e nei conflitti e NON in modo “politicista” e “verticista”, ed è questo il punto di vera divergenza di linea politica in questo congresso, per quanto ci si dica d’accordo su analisi e per quanto si indichino gli stessi esempi da seguire (come Barcellona) è giusto che una divergenza che inerisce non la discussione teorica e approfondimenti di analisi, bensì l’azione immediata e concreta di tutto il partito il giorno dopo il congresso, venga sottoposta ad un vaglio democratico definitivo. E questo si può fare solo con documenti contrapposti. Se su questo punto fondamentale si ha un giudizio così negativo dell’operato del gruppo dirigente dal congresso di Chianciano ad oggi è legittimo ed anche democratico presentare un documento alternativo. Se si propone di cambiare linea politica (come dimostrerò nel punto successivo) tutto si può fare tranne che far finta di “essere stati costretti” a presentare un documento alternativo al solo scopo di imbrogliare militanti che giustamente malsopportano le divisioni del gruppo dirigente.
Se invece si fa, si tratta di un elemento inquinante la discussione che crea appositamente confusione.
Magari “gioiosamente” (sic) ma ci si siede non dalla “parte del torto” intesa come controcorrente, bensì dalla parte del pensiero dominante che si nutre di demagogia e false suggestioni.

2) L’unità dei conflitti e dei movimenti sociali, oggi dispersi ed isolati, e l’unità di tutte le organizzazioni alternative alle politiche neoliberiste, contrarie a qualsiasi riedizione del centrosinistra e collocate nel campo del Partito della Sinistra Europea e del Gruppo parlamentare della Sinistra Unitaria Europea (GUE), sono entrambe indispensabili ed intimamente collegate al fine della costruzione di una alternativa in Italia ed in Europa. Senza questo collegamento e senza queste unità i conflitti e i movimenti sociali sono destinati a rimanere dispersi ed isolati e ad essere sconfitti, e le forze politiche, siano esse coalizioni o partiti, sono destinate ad un ruolo nel migliore dei casi testimoniale, o ad essere riassorbite in una dialettica politico-istituzionale dalla quale è esclusa ogni possibile alternativa reale.
Questo punto politico è ineludibile per chi si proponga di costruire un’alternativa di governo al campo delle forze interne al sistema dominante e alle politiche neoliberiste e d’austerità.
Non c’è lotta, grande o piccola, che non rivendichi leggi e/o misure di governo per risolvere in modo vincente il conflitto. Sia a livello locale sia a livello nazionale vertenze e rivendicazioni, per vincere, necessitano di un rovesciamento dei rapporti di forza nelle istituzioni in modo che leggi e provvedimenti di governo soddisfino i bisogni che le hanno prodotte. È così per la TAV come per la chiusura di un inceneritore. Per ripubblicizzare acqua e servizi. Per perseguire l’omofobia e per ampliare diritti civili. Per tornare al sistema contributivo e per abbassare l’età pensionabile nel sistema pensionistico. Per nazionalizzare i settori strategici in economia. Per ristrutturare il debito. Per abrogare le leggi che hanno precarizzato il lavoro. Per uscire dall’euro e dalla NATO. E così via.
Grazie alla Costituzione, alla natura parlamentare della Repubblica, ai partiti di massa che rappresentavano direttamente interessi sociali, tutto ciò era ed è stato possibile anche dall’opposizione. Oggi no.
Fin dalla nostra nascita abbiamo detto che l’elezione diretta del sindaco e lo svuotamento dei poteri del consiglio comunale e le riforme elettorali maggioritarie avrebbero privato le forze antagoniste della possibilità di incidere dall’opposizione sulle scelte legislative e sulle decisioni del governo. Condannandole all’impotenza, e cioè a non poter conquistare nulla per le lotte, e quindi espellendole tendenzialmente dalle stesse istituzioni. O trasformandole in una appendice comunque impotente del centrosinistra anche quando erano decisive per la stessa vita del governo.
Certamente abbiamo commesso errori, anche gravi, nel corso di questi 25 anni. Ma sottovalutare i problemi oggettivi, totalmente estranei alle nostre responsabilità, come la natura escludente del sistema politico per ogni rivendicazione e programma antagonista, è un errore enorme.
Credere e predicare che l’unità dei conflitti possa rovesciare i rapporti di forza sul piano politico senza proporsi la costruzione di una forza unitaria e nettamente antagonista nei contenuti, capace di conquistare il consenso necessario, è un’illusione nefasta, fondata proprio sulla sottovalutazione della natura del sistema politico. Credere e predicare che si possa influenzare positivamente la politica di un governo di centrosinistra dal suo interno lo è altrettanto.
Sono due facce della stessa medaglia. E del resto non per caso sono all’origine di tutte le innumerevoli scissioni che ha subito il PRC.
Se c’è qualcosa che ancora manca pienamente nel corpo del nostro partito è la consapevolezza di questa realtà. Ovviamente ciò vale altrettanto, se non di più, sia per i protagonisti dei conflitti sia per i militanti delle ormai molte organizzazioni e aggregazioni politiche. Da Sinistra Italiana al Partito Comunista del Lavoratori.
Proprio per questo accusare il gruppo dirigente del PRC di aver perseguito l’unità della sinistra in modo verticistico e politicista, oltre ad essere una falsità, è la fuga dalla realtà concreta del rapporto fra le lotte e i conflitti e la “politica” quale essa è percepita e poi praticata dagli stessi protagonisti dei conflitti.
Le persone in carne ed ossa che lottano, scioperano, manifestano, quando si vota alle elezioni assumono comportamenti separati e spesso contraddittori con le rivendicazioni per cui si impegnano. Da chi vota 5 Stelle, a chi vota centrosinistra, a chi vota uno dei 4 o 5 partiti comunisti, a chi si astiene, tutti lo fanno o illudendosi che sia la volta buona (salvo poi deludersi inevitabilmente) o per un qualche motivo che nulla c’entra con gli obiettivi della lotta alla quale partecipano. Per scegliere il meno peggio, per affidarsi ad un leader, per evitare che qualcun’altro vinca, e così via. Se questo vale per le persone che lottano figuriamoci per la gran massa di individui-consumatori che non sono nemmeno consapevoli di avere interessi che solo con la lotta si possono difendere.
Perciò, fin dal congresso di Chianciano, la linea politica del partito è sempre stata: costruire, praticare e sostenere il conflitto sociale su obiettivi radicali e antagonisti, e costruire l’unità di tutte le forze suscettibili di essere unite sulla base di tre precise discriminanti: programma antiliberista, alternatività al centrosinistra e al Partito Socialista Europeo, pluralità e rispetto delle identità ideologiche ed organizzative di tutti.
Per poter unificare e connettere le lotte è necessaria l’unità di tutte le culture e forze politiche che si riconoscono nelle lotte e che elaborano un programma capace di conquistare gli obiettivi di lotta rovesciando i rapporti di forza politici.
Va da sé che la base di tutto sono le lotte e gli interessi delle classi subalterne, e che nessuna unità è utile se finalizzata ad insediare rappresentanze istituzionali fini a se stesse.
Ma le elezioni esistono, sia a livello nazionale che a livello locale. E i loro tempi e modalità non sono a disposizione delle nostre decisioni.
Per questo abbiamo dovuto tentare ad ogni occasione possibile di costruire liste, coalizioni e programmi unitari. Non nel tentativo banale, ma non per questo inutile, di eleggere qualche compagno o compagna del PRC. Bensì esattamente nel tentativo, difficile ma indispensabile, di costruire l’unità sufficiente a rendere minimamente incisive le lotte.
Ci siamo sempre rivolti a tutti coloro che dicevano di essere in sintonia con le lotte. Anche se propensi a stare nel centrosinistra dicendogli di dismettere l’illusione. Anche se propensi alla pura testimonianza dicendogli che la competizione elettorale fra diverse liste identitarie è nociva per le lotte. Abbiamo sollecitato persone, comitati di lotta, realtà sociali a promuovere loro liste unitarie, consapevoli che nella realtà delle divisioni a sinistra sarebbe stata più efficace la loro iniziativa che quella del nostro partito.
Per costruire queste esperienze unitarie non abbiamo mai sacrificato nessun contenuto importante e, al contrario, proprio in nome dei contenuti e dell’autonomia del nostro partito, quando abbiamo dovuto presentarci da soli l’abbiamo fatto a testa alta, sapendo che avremmo avuto risultati deludenti e che ci avrebbero accusati di essere settari e derisi come irrilevanti.
In ogni esperienza unitaria che si conosca è necessario concordare fra i soggetti che vi partecipano per lo meno l’inizio di un processo unitario. Altrimenti è impossibile.
L’accusa di verticismo e di politicismo sarebbe fondata se il PRC avesse come obiettivo, come fu per la Sinistra e L’Arcobaleno, la costruzione di una lista e poi di un partito nuovo nel quale sciogliere il PRC. Sarebbe giusta se noi non avessimo sempre detto ai 4 venti che il nostro obiettivo era promuovere un’aggregazione unitaria su precise discriminanti che una volta avviata cominciasse a funzionare con il criterio di una testa e un voto.

Noi abbiamo sostenuto e continuiamo a sostenere che una forza politica antiliberista e democratica, con un programma di fase e collocata in Europa nel campo del GUE è necessaria ed indispensabile. Non al nostro partito. È vitale per le lotte e per la possibilità che queste ricomincino a conquistare vittorie. Lo è proprio nel momento in cui la crisi ha scavato un solco abissale fra i governi e gli stessi sistemi politici e la gran parte della popolazione. Nel momento in cui, anche se confusamente, la coscienza che le politiche liberiste e d’austerità sono incompatibili con la difesa dei diritti sociali. E che le forze sedicenti di sinistra che le hanno prodotte, promosse, difese e appoggiate non possono essere alleate.
Il gruppo dirigente del PRC ha portato avanti questa linea politica, per altro confermata puntualmente dai congressi. Ed ha dovuto farlo controcorrente rispetto alla stessa concezione della “politica” corrente, ed anche nonostante le minoranze interne abbiano spesso agito come opposizioni dedite ad impedire che quanto deciso dai congressi potesse realizzarsi. Minoranze che non hanno esitato a promuovere campagne interne ed esterne al partito sostenendo che si voleva sciogliere il partito, che il “partito sociale” era sbagliato e che era roba da dame di san vincenzo, oppure che con le nostre discriminanti sul centrosinistra ci condannavamo all’irrilevanza, oppure che invece che l’unità della sinistra antiliberista dovevamo promuovere l’unità dei comunisti con un partito che aveva rotto con noi esattamente sull’internità o meno al centrosinistra. E potrei continuare a lungo.
Oggi il 2° documento ci accusa di insistere su questa linea politica che sarebbe fallita.
E ne propone un’altra. I rapporti di forza si rovesciano unificando le lotte. E promuovendo la rete delle “città ribelli”. Non c’è altro. Null’altro che un’illusione movimentista di vecchia e più recente memoria per cui il movimento è il fine e la politica un inganno e un cedimento,
e l’altrettanto illusoria idea che il municipalismo sia la vera ed unica dimensione di una possibile alternativa.
Sono opinioni e posizioni rispettabili ed anche legittime. E non sono nuove giacché esistono organizzazioni e aggregazioni che le propongono da anni. Ma a mio parere sono profondamente sbagliate.
È vero che ad oggi non siamo riusciti a realizzare l’obiettivo di avviare la costruzione di una forza unitaria. Ma se l’obiettivo è giusto per le classi subalterne e per lo stesso paese perché dovremmo dismetterlo? Perché Sinistra Italiana ha in animo di fagocitare tutto? Perché Rossa o altre organizzazioni propongono contenuti e discriminanti tali da non unire nemmeno se stesse? Perché forse arriverà l’uomo della provvidenza nella persona di un sindaco meridionale che si deciderà a fondare una aggregazione intorno a se stesso?
La nostra proposta è vieppiù difficile da realizzare in Italia. A causa della mutazione che il sistema politico maggioritario ha prodotto nelle forze organizzate, noi compresi. A causa del delirio leaderistico e personalistico prodotto dal sistema elettorale e dai mass media. A causa del trasformismo dei gruppi dirigenti sindacali e politici della sinistra. A causa della frammentazione e isolamento delle classi subalterne e delle lotte.
Ma questi ostacoli e problemi sono oggettivi ed esterni alle nostre responsabilità. Non sono addebitabili a nostri errori. Tornerò su questo punto nell’ultima parte che riguarda direttamente il partito e la sua dialettica interna.
Rimane il fatto che contro ogni difficoltà è necessario unire tutto quel che si può unire contro il sistema attualmente dominante sconfiggendo sia la deriva testimoniale sia la deriva politicista, questa si, della costruzione di un nuovo partito modellato secondo il sistema elettorale vigente e nel quale tutti dovrebbero sciogliersi.
Insistere su una cosa giusta è una virtù, spesso costosa e faticosa. Abbandonare un obiettivo giusto perché difficile è una scorciatoia, questa si fallimentare.
Quando si scende nel concretissimo e si indicano esempi importanti a convalida delle proprie proposte curiosamente entrambi i documenti citano Napoli e Barcellona. Dico curiosamente perché nessuna delle due esperienze a mio parere conferma le posizioni del 2° documento.
Su Napoli sarò brevissimo perché è una realtà ben conosciuta in Italia.
L’esperienza nasce nel 2011, come ormai non può essere diversamente dato il sistema elettorale comunale in Italia, perché il signor De Magistris si candida a sindaco e perché Italia dei Valori, Federazione della sinistra, una lista civica dal nome “Napoli è tua” e un fantomatico Partito del Sud, decidono di essere alternativi al centrosinistra. 27 % al primo turno e 65 % al secondo. E nel 2016 la coalizione si allarga a ben 12 liste e PRC, SEL, Pdci ed altri ancora formano una lista dal nome Napoli in Comune-A Sinistra. 43 % al primo turno e 67 % al secondo.
Si tratta di un’esperienza molto interessante, cui segue quella altrettanto interessante di Palermo. Interessante perché dimostra che si può vincere contro destra e centrosinistra, che si può avere un programma minimamente controcorrente, che si può incarnare un’alternativa e raccogliere consensi in una giusta direzione nonostante la coalizione sia tutt’altro che radicale e antagonista. De Magistris era dell’Italia dei Valori ed infatti la lista del suo partito e la lista civica “Napoli è tua” prendono 23 consiglieri contro i 6 della Federazione della Sinistra nel 2011. E le sue liste civiche 18 consiglieri contro i 4 della lista Napoli in Comune e 2 dei verdi.
La personalità di De Magistris e i necessari accordi di vertice fra partiti hanno permesso che una parte grande della città votasse una coalizione con un programma alternativo. Senza queste due cose sarebbe stato impossibile.
Parlare di Napoli come se i conflitti e i movimenti sociali dal basso avessero costruito un’unità capace di costringere le forze politiche a seguirli è una balla grande come una casa.
Resta il fatto che grandissima parte del grande successo della coalizione
(ma non si può certo parlare di grande successo delle liste di sinistra in essa presenti) è dovuta al sindaco.
Ma non si può certo affidarsi alla speranza che qualcosa di analogo succeda a livello nazionale, come ha dimostrato inequivocabilmente l’esperienza di Rivoluzione Civile promossa intorno alla figura di Ingroia. E alla quale, come è noto o dovrebbe esserlo ai militanti del PRC, noi ci siamo associati perché era quello che passava il convento e perché una divisione del campo alternativo al centrosinistra avrebbe dimostrato il contrario di quel che noi volevamo.
Barcellona, invece, è esattamente l’esperienza che noi indichiamo come modello da seguire. Tenendo ovviamente conto delle differenze oggettive dei sistemi politici istituzionali e della realtà sociale e politica.
La portavoce del forte movimento contro gli sfratti (sconosciuta alla grande opinione pubblica) a nome di un collettivo politico (Guanyem Barcelona) propone che tutte le forze della sinistra radicale e alternativa, che esponenti dei movimenti sociali e dell’associazionismo, si uniscano in un’unica lista per tentare di vincere il governo della città. Una ad una quasi tutte le forze politiche della sinistra radicale, a cominciare da Esquerra Unida i Alternativa, accettano di discutere la proposta. Seguono riunioni di vertice fra le 6 forze politiche che partecipano e alla fine concordano programma, liste (e quindi gli eventuali eletti perché le liste sono bloccate) e capolista (possibile sindaco giacché non esiste l’elezione diretta). Si autoesclude la CUP (Candidatura d’Unitat Popular) che è l’estrema sinistra indipendentista con la motivazione che non vuole far parte di una lista che vede presente il partito Iniciativa per Catalunya giacché questo ha partecipato in passato ai governi della città insieme al Partito Socialista.
È evidente che dopo il Movimento degli Indignados la proposta di un movimento di lotta organizzato per conquistare il governo della città era difficilmente rifiutabile da parte delle forze politiche. Ma è altrettanto evidente che la stessa proposta non sarebbe nemmeno stata fatta se non fossero prima intercorsi colloqui ed accordi di vertice informali. E che la gestione di programmi e liste non potevano che essere discussi e prodotti da accordi di vertice.
Non mi dilungo sull’ottima esperienza amministrativa. Ma è necessario sapere che la lista Barcelona en Comù ha vinto le elezioni nel senso che ha ottenuto, come lista più votata il 25 % dei voti e 11 cosiglieri su 41. Giacché nei comuni spagnoli si può governare in minoranza se le opposizioni non riescono ad esprimere una maggioranza alternativa, la Sindaca Ada Colau è stata eletta in consiglio con i 5 voti di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), i 4 dei socialisti e 1 voto su 3 della CUP dato esplicitamente per decisione politica perché indispensabile. Analogamente è stato approvato il bilancio e dopo il primo anno di governo Barcelona en Comù ha chiesto a ERC, PSC e CUP di entrare nel governo. Solo i socialisti hanno accettato.
Tutte le altre esperienze di città grandi e piccole nello stato spagnolo sono state analoghe.
Alle elezioni comunali sono seguite le elezioni catalane e poi due turni di elezioni spagnole.
L’esperienza unitaria è stata ripetuta con un relativo insuccesso nelle elezioni regionali e con grande successo della lista unitaria catalana “En Comù Podem” alle elezioni spagnole che per due volte è stata la lista più votata con il 25 %.
Dopo due anni e 4 passaggi elettorali ora la lista ha deciso di trasformarsi in forza politica funzionante con il metodo di una testa un voto. I partiti coinvolti parteciperanno rinunciando a presentarsi alle elezioni in proprio e potranno decidere autonomamente se sciogliersi o meno nella nuova formazione.
Come si vede dire che bisogna unire i conflitti e le città ribelli per far nascere una forza capace di tentare di cambiare realmente le cose, senza ottenere dalle forze politiche esistenti l’impegno unitario, è una pura suggestione.
Insistere su una proposta politica giusta non è insistere nell’errore. È condurre una battaglia affinché lotte, movimenti e conflitti dispongano di uno spazio unitario per portare nelle istituzioni rivendicazioni e programmi alternativi.
Fare incontri di vertice, come del resto fa qualsiasi organizzazione politica che non sia una setta, serve ad impedire che progetti sbagliati sia sul versante del centrosinistra che sul versante della testimonianza producano divisioni elettorali infinite che lasciano attonite milioni di persone impossibilitate a capire perché chi si oppone all’austerità, chi lotta contro le guerre, per i diritti sociali e civili, per rimettere il lavoro al centro della politica, si presenti diviso alle elezioni litigando per contendersi voti nella stessa base elettorale.
Insistere perché la forza nascente funzioni sulla base di una testa un voto è necessario perché la stragrande maggioranza delle persone che possono partecipare, e sono molte volte più numerose degli iscritti ai partiti, sono indubitabilmente radicali sui contenuti, unitarie e indisponibili a farsi usare per piccoli calcoli di bottega di questo o quel presunto leader e di questo o l’altro partito. Ed è unendo questo corpo politico e sociale che si può far egemonia. Non separandosene o contribuendo a frantumarlo.
È ovvio ed anche scontato che possiamo non riuscire a realizzare questo obiettivo. Ciò può produrre un effetto indesiderato: la presentazione di due o anche tre diverse liste.
Ma sarebbe una sconfitta proprio per le lotte e i movimenti sociali. Non un chiarimento. Non una prova di coerenza.
3) il 2° documento inizia citando i negativi dati del tesseramento. Per poi dire che è vero, abbiamo resistito e tenuta ferma la discriminante sul centrosinistra e sullo scioglimento del partito. Ma immediatamente propone una critica secondo la quale sono i fallimenti del politicismo il vero problema.
Si dice: “gli anni che ci separano da Chianciano sono all’opposto costellati da un susseguirsi di simboli che rappresentano tutti la stessa cosa: il fallimento di tentativi politicisti che hanno assorbito gran parte delle energie del partito di costruzione dall’alto dell’unità della sinistra come precondizione per attivare partecipazione, fino ad arrivare a parlare della necessità di costruire una sinistra di governo.”
Prima di parlare del tema del tesseramento e cioè della militanza, vorrei dire alcune cose su questo passaggio della seconda mozione che considero molto importante.
a) credo di aver spiegato che per creare qualsiasi aggregazione è indispensabile che le forze sociali e politiche che vi possono partecipare parlino tra loro per concordare il minimo per poter attivare una partecipazione di massa. Sono i contenuti a definire se si tratta di politicismo o meno. Non le forme. Non si può dire che abbiamo difeso l’idea di comunismo, che ci siamo rifiutati di sciogliere il partito, che abbiamo posto discriminanti programmatiche e di schieramento chiarissime, e poi dire che siamo stati politicisti perché abbiamo promosso e ci siamo seduti a tavoli unitari ai quali abbiamo sempre proposto la stessa cosa, la costruzione di una forza unitaria dal basso (perché proporre il criterio una testa un voto vuol dire mettere d’accordo i vertici per dare potere e parola al basso).
b) se è vero, come è vero, che diversi tentativi sono falliti è per responsabilità nostra? Per esempio potevamo trasformare la lista della Federazione della Sinistra nell’unità comunista sorvolando sul centrosinistra, sulla cultura politica del Pdci. Oppure potevamo evitare di proporre che le decisioni importanti venissero prese con un referendum della base. O potevamo proporre di allargarla a SEL che avrebbe eletto nel gruppo del PSE. In questo caso l’accusa di politicismo sarebbe stata fondata. La realtà è che la Federazione è saltata esattamente perché abbiamo tenute ferme le discriminanti dei contenuti e perché abbiamo tentato, invece di fare mediazioni di vertice impossibili, di risolvere le divergenze dando la parola alla base. È il contrario del politicismo. Analogamente ci siamo comportati in tutte le altre esperienze.
c) da Chianciano in poi il gruppo dirigente del partito ha detto, scritto, proclamato ed insistito su un concetto: le lotte, il conflitto sociale, l’autorganizzazione e le forme vecchie e nuove di mutualismo solidale devono essere il centro della riflessione e dell’azione del partito. Le elezioni sono importanti ma secondarie. E noi usiamo tatticamente le scadenza elettorali per proporre un’aggregazione ampia e partecipata dal basso. È vero che si è discusso moltissimo dell’unità della sinistra e pochissimo delle lotte. È vero. Ma non è vero che i rapporti di vertice con altre forze abbiano “assorbito gran parte delle energie del partito“. Sono state le accuse di voler sciogliere il partito, di non volere l’unità comunista, di far sparire il comunismo dalla scheda elettorale, e così via a costringere il partito a discutere infinitamente. A organizzare una riunione di vertice ci vogliono poche ore di lavoro. A difendersi da un’accusa infondata ed infamante demagogicamente propinata ad un corpo militante sconfitto e disorientato ci vuole pazienza e molto lavoro. Purtroppo.
d) è vero che i tentativi che abbiamo messo in atto per promuovere l’unità sono falliti. Ma ci sono altre due cose che vanno dette. Se non li avessimo fatti la situazione sarebbe migliore? Davvero si pensa che ad ogni scadenza la presentazione di più liste avrebbe dato un risultato migliore per la nostra? Davvero si pensa che sono falliti perché sono stati preceduti dal banale accordo fra forze diverse?
Da anni diciamo in sede di analisi, nei congressi e fuori dai congressi, che il sistema politico italiano della cosiddetta seconda repubblica è esiziale per le forze antagoniste. Per il più che evidente motivo che tende a condannarle alla testimonianza o alla subalternità nel centrosinistra. Perché il voto utile (e il voto di preferenza in comuni e regioni) impera su tutto. Sia a livello locale sia a livello nazionale le sirene di “contare qualcosa nel centrosinistra è meglio di non contare nulla” e di “meglio testimoniare la nostra coerenza che allearci con altri” sono irresistibili per gran parte di coloro che si considerano comunisti, di sinistra o semplicemente progressisti. Questo è un fatto oggettivo. Essere antagonisti, alternativi, radicali, ribelli (tutte parole che dovrebbero essere ben riassunte dall’aggettivo comunista) oggi significa rifiutarsi di scegliere una delle due parti in commedia previste dal sistema. È molto difficile andare controcorrente sul serio. Ed è complesso. Ed è anche facile commettere errori.
Ma quando si rimuove la natura oggettiva delle difficoltà, degli insuccessi e delle sconfitte e si dice al militante che è giustamente e comprensibilmente deluso che è colpa del gruppo dirigente e di una linea politicista si commette un atto gravissimo. Che fa leva sulla demagogia e non sull’analisi della realtà.
e) è vero che il tesseramento ci propone dati sconfortanti. Certo se avessimo accettato di avere 4 ministri e 8 sottosegretari nel primo governo Prodi e non avessimo rotto non avremmo avuto la scissione, non saremmo passati dall’8 % al 4 % e da 130 a 80 mila iscritti. Se non avessimo impedito col congresso di Chianciano che il partito si sciogliesse in una SEL più grande e non avessimo subito una campagna di stampa e televisiva, a dir poco denigratoria, di tre anni non avremmo perso la metà degli iscritti. E se negli ultimi anni non avessimo tenuto ferme le discriminanti sul centrosinistra e rifiutato l’unità comunista non avremmo subito altre scissioni sia nazionali sia in importanti regioni, federazioni e circoli. Se avessimo ancora 160 funzionari probabilmente il partito funzionerebbe meglio. Se avessimo milioni di euro da investire in comunicazione potremmo sormontare molte difficoltà ad essere “visibili”.
Queste cose fanno parte della sconfitta e del tentativo di resistere non cedendo e non svendendo identità e contenuti. Non abbiamo colpe.
Ognuna delle scissioni, grandi e piccole, di destra e di sinistra, nazionali o locali, oltre alla fuoriuscita dei protagonisti delle stesse ne hanno provocato una molto più grande di compagne e compagni delusi, amareggiati e sfiduciati.
Ed anche questo è un dato sostanzialmente oggettivo.
E ce ne sono altri.
Il pensiero dominante, fatto di luoghi comuni, semplificazioni, personalismi, è profondamente penetrato nel popolo. Ed anche nel nostro partito.
Se non sei in televisione non esisti. Se non hai un leader carismatico e giovane non hai speranza. Se non vinci sei un perdente. Se non banalizzi e non semplifichi tutto non sei in grado di farti capire. Se non compare il tuo simbolo sulla scheda elettorale vuol dire che ti sei svenduto, che hai rinunciato alle tue idee, che non sei coerente. Chi la spara più grossa e urla la frase più scarlatta è più di sinistra. E così via.
La maggioranza dei militanti non legge, non studia. Quando avevamo 130mila iscritti il quotidiano del partito vendeva circa 12mila copie. E nei circoli si discuteva della linea politica del partito così come appariva nei talk show in TV. Oggi è peggio. Non meglio, nonostante il partito sia più militante.
Perfino l’individualismo più sfrenato è penetrato fra le nostre fila.
Spesso uno screzio diventa un dramma e poi una guerra senza esclusione di colpi.
Una divergenza in un organismo diventa oggetto di insulti, diffamazioni, processi alle intenzioni non solo nelle riunioni ma soprattutto sui cosiddetti social network in internet. Gli imbecilli che appena hanno una discussione nel circolo, nel federale o addirittura nel CPN corrono ad insultare altri/e compagne/i via twitter o facebook andrebbero espulsi seduta stante, perché producono un’immagine oscena del partito che non può che allontanare persone serie e animate da uno spirito realmente militante.
Una cosa è litigare o discutere animatamente in una riunione ed un’altra è insultare per iscritto in modo che il mondo intero possa godere della rissa in internet. Talk show e reality show fanno egemonia.
In una simile situazione è perfino scontato che il tesseramento vada male.
Infine c’è un problema strutturale. Che non dovrebbe proprio esistere in un partito comunista.
Il partito comunista esiste per agire. Non per discutere. L’analisi, la discussione e le decisioni conseguenti servono per metterle in pratica. Un partito comunista dovrebbe decidere a maggioranza raramente, in presenza di decisioni controverse ed importantissime. E dovrebbe selezionare dirigenti con il criterio delle competenze, del valore, della rappresentanza di genere, dell’impegno, delle doti umane e politiche connesse alla solidarietà e al rispetto delle posizioni altrui.
Un partito di correnti non funziona così.
Una cosa sono culture politiche, correnti di pensiero, riviste. Queste cose sono indispensabili e arricchiscono la vita collettiva del partito. Un’altra cosa sono correnti che tentano di impedire che le decisioni prese democraticamente si realizzino, che praticano la “propria linea politica” contrapposta a quella nazionale nel circolo o nella federazione dove hanno la maggioranza, che praticano l’ostruzionismo negli organismi dirigenti, che non esitano ad usare la demagogia, le suggestioni e le semplificazioni più vergognose per “vincere” la loro battaglia.
Questa situazione produce effetti deleteri.
Si selezionano dirigenti sulla base della fedeltà perché la maggioranza tende a farlo per garantirsi di poter procedere all’applicazione di quanto deciso e le/la minoranze/a per poter continuare ad oltranza la battaglia contro la maggioranza.
Esistono cordate, sottocorrenti, e persone che subordinano il voto a decisioni importanti all’ottenimento di posti di direzione. E possono passare disinvoltamente da una posizione all’altra secondo interessi che nulla hanno a che vedere con la politica.
Gli organismi dirigenti invece che luoghi di pensiero, di approfondimento, di elaborazione diventano parlamentini ai quali le correnti si presentano dopo aver discusso al loro interno e dove sono costrette a praticare una disciplina interna in una guerra permanente con tanto di dichiarazioni di voto a nome della corrente. Parlamentini dove spesso si usano armi nobili e necessarie in un parlamento dove ci sono partiti contrapposti e dove l’opposizione ha il sacrosanto diritto di usare ogni espediente per mettere in difficoltà il governo, ma che sono totalmente improprie in un partito politico dove si sta per scelta, per affinità ideologica e programmatica e che per di più deve, come è il caso del partito comunista, combattere con nemici potenti e andare controcorrente.
E così si agisce sul numero legale, si elaborano ordini del giorno al solo scopo di mettere in difficoltà la corrente opposta, si chiedono conteggi dei voti anche quando è totalmente superfluo, si brandisce lo statuto con argomenti da azzeccagarbugli. Anche su questo potrei continuare a lungo.
Ma è certo che questo modo di essere e di comportarsi degli e negli organismi dirigenti ha allontanato moltissime compagne e moltissimi compagni.
Penso che durante e dopo il congresso si debba discutere seriamente di come debba funzionare un partito comunista composto principalmente da militanti e di come invertire la tendenza a diventare una somma di partitini in perenne conflitto fra loro.
 
 


lunedì 20 febbraio 2017

Cremaschi, i suoi 1.000 orologi e la truffa “sovranista” di Eurostop. La redazione di “il cuneo rosso”

In calce una prima risposta  di Giorgio Cremaschi  e una replica di "Il cuneo rosso"
022 zafL’assemblea di Eurostop tenutasi a Roma il 28 gennaio scorso merita due note di commento. Nulla che passerà alla storia, intendiamoci. È solo cronaca. Cronaca di una delle tante forme, in Europa, di accodamento delle sinistre alla tematica, imposta dalle destre iper-nazionaliste, dell’uscita dall’euro e dall’UE come (falsa) via maestra per risolvere i gravi problemi sociali creati dalla crisi del sistema capitalistico. Le tesi presentate a Casalbruciato erano già state presentate nelle precedenti iniziative di Eurostop. Però un paio di cose almeno in parte nuove, ci sono state. Anzitutto l’estrema nettezza con cui è emerso il messaggio politico effettivo di Eurostop, soprattutto grazie all’ospite d’onore del consesso, il magistrato Paolo Maddalena. E poi la violenza verbale, il sarcasmo con cui il mite Cremaschi si è ritenuto in dovere di attaccare ogni prospettiva di lotta che sia fondata su basi di classe, quindi internazionaliste, anziché, com’è l’Ital-exit, su basi democratiche e popolari, e quindi nazionali e nazionaliste.

Il documento preparatorio dell’assemblea e l’intervento introduttivo di Cremaschi hanno come loro termine-chiave la rottura. Rottura con che cosa? Con l’euro e l’UE – la Nato, sebbene nominata, è rimasta molto sullo sfondo; si è parlato ben poco delle guerre Nato, e meno ancora del militarismo e dell’imperialismo italiano. Rottura con “la globalizzazione liberista”: è questo il nemico dal cui dominio affrancarsi, in un processo di “liberazione dal capitalismo liberista”.
Per quale obiettivo? Riaffermare “la sovranità democratica e popolare del nostro paese“. Si tratta, perciò, quanto al nemico, di un nemico essenzialmente esterno all’Italia. Altrimenti che senso avrebbe parlare di recupero di sovranità? E, quanto al movimento politico da mettere in campo, si tratta di un movimento che punta al “cambiamento progressista”. Un progresso che è costituito curiosamente da un ritorno all’indietro. Infatti la rottura proposta da Cremaschi “è riconquista di democrazia, potere popolare, eguaglianza sociale”. Naturalmente anche il socialismo è evocato, è d’obbligo in simili discorsi; non guasta, come lo zucchero a velo sul pandoro (a chi piace). È evocato, in coda, anche il conflitto di classe, che deve portare energia al progetto “sovranista” di sinistra: costituirne cioè la manovalanza. Ciò non toglie che esso si presenti con margini di ambiguità tali da poter coinvolgere, forse, anche settori di lavoratori e di giovani disposti realmente a lottare. È questo il solo motivo per cui ce ne occupiamo.
L’ospite d’onore, Maddalena, vice-presidente emerito della Corte Costituzionale, ha avuto il merito di spazzare via una buona parte delle ambiguità di partenza dell’assemblea mettendo chiare le carte in tavola per tutto il circo social-nazionalista lì presente. L’anziano giurista ha tenuto una vera e propria lezione (non i 7 minuti a testa degli interventi). Divisa in due parti: una di economia, l’altra di politica. Quella sul capitalismo contemporaneo è stata a dir poco sgangherata perché ha ripetuto, per giunta male, la fregnaccia secondo cui il capitale finanziario è colpevole di ogni male sociale, come se il capitale finanziario fosse un’altra cosa dal capitale senza altri aggettivi e specificazioni. La seconda parte del suo discorso, più lineare, più competente, più esplicitamente politica, è stata un peana per la “nostra meravigliosa Costituzione”. Specie per l’art. 42, perché pone limiti alla proprietà privata (si è visto negli scorsi 70 anni, e più ancora negli ultimi 30!) e le mette accanto, alla pari, anzi: al di sopra, la proprietà pubblica (in realtà, statale).
La parte economica della lezione ha opposto tra loro keynesismo e neo-liberismo, due politiche che tutto sono salvo che opposte, essendo entrambe espressione di differenti, e complementari, necessità capitalistiche (questa opposizione fasulla era rimasta sottotraccia nella relazione di Cremaschi). Al keynesismo ha rivendicato il merito della spesa sociale dello stato, come se essa facesse parte organica delle politiche keynesiane – una tesi sostenibile solo ignorando tutto del keynesismo reale, specie quello di guerra (il keynesismo più vero!) da un lato, e dall’altro ignorando che solo le lotte della classe lavoratrice e lo sfruttamento imperialista hanno consentito un po’ di welfare a tempo in Occidente e in Italia. Così al summit di Eurostop Keynes, il Lord britannico speculatore di borsa dal feroce spirito anti-proletario, è uscito con l’aureola di santo salvatore di coloro che si sudano la vita a salario, quando ce l’hanno, il salario. Al neo-liberismo, per contro, Maddalena ha accollato tutti i frutti maligni del capitalismo. Inclusa, per intero, la crisi del 2007-2008 in quanto prodotta da una “deformazione dell’attuale sistema economico”, che senza le deformazioni neo-liberiste sarebbe evidentemente un’economia differente, messa bene in forma, esente da crisi. Puerilità desolanti.
Quanto al suo messaggio politico, lo si può condensare così: la “nostra meravigliosa Costituzione” è keynesiana, e ad essa si deve tornare, ribellandosi alle legislazioni europee, scritte e approvate da “traditori della patria” (testuale, come tutto ciò che è qui tra virgolette). Per fare che cosa? Per “ricostituire l’unità del popolo italiano”, la “nostra comunità politica” fondata sulla triade popolo-territorio-sovranità, cioè la nazione – dobbiamo specificare: borghese? In coda il “programma concreto”: no alle privatizzazioni e alle delocalizzazioni, nazionalizzazione dei terreni abbandonati, riconquista del territorio italiano, etc., con lo stato, la “proprietà pubblica”, nella parte dell’eroe buono di tutta la storia, che ha il compito di riportare all’unità le diverse componenti del “popolo”, anzitutto quindi il capitale e il lavoro.
Applausi. Applausi caldi. Applausi generali, filiali, riconoscenti – un intervento “ricco e stimolante”, l’ha definito un esponente della Rete dei comunisti… Applausi più convinti di quelli riservati alla relazione di Cremaschi, per non parlare poi degli altri interventi. Applaudiamo anche noi. Perché Maddalena ha spiattellato, forse senza esserne cosciente fino in fondo, qual è, spogliato dalla fuffa che lo ricopre, il reale contenuto della “rottura” evocata con consumata demagogia da Cremaschi: il ritorno, in economia, ad una politica keynesiana e, in politica, alla repubblica parlamentare come strutturata dalla Costituzione. Del resto, il punto 13 del documento preparatorio dell’assemblea coincide alla virgola con la prospettiva esposta dall’ospite d’onore, un democristiano di lungo corso, a suo modo dignitoso come nemico di classe:
“La rottura punta alla regressione della globalizzazione, per far avanzare di nuovo una democrazia fondata sulla eguaglianza sociale. Nel referendum costituzionale abbiamo misurato il contrasto strategico tra la Costituzione del 1948 e la governance europea e occidentale. Bisogna agire su questo contrasto e trasformarlo in rottura politica: o la Costituzione antifascista, o l’Euro, la UE, la Nato“.
Ovvero: usciamo dall’euro e dall’UE per tornare alla nazione, alla sovranità nazionale – altro punto essenziale trattato da Maddalena; a una nazione che abbia a suo punto di riferimento la Costituzione del 1948. Cremaschi ha la faccia di bronzo di definirla “fondata sull’eguaglianza sociale”. Fondata sull’eguaglianza sociale? Con tanto di protezione della proprietà privata dei mezzi di produzione “riconosciuta e garantita dalla legge”? Con tanto di divieto costituzionale al “popolo sovrano” di esprimersi in materia di fisco, essenziale strumento della lotta di classe dall’alto contro i lavoratori? Una Costituzione in “contrasto strategico con l’euro, la UE, la Nato”? Ma quale narrazione inventa? I padri della Costituzione del ’48, libro sacro di Eurostop, sono stati, all’unanimità o a maggioranza, tra i promotori del processo di unità economica-politica dell’Europa e della nascita della Nato – protetti a priori, nella “nostra meravigliosa Costituzione”, dal divieto al suddetto “popolo sovrano”, che secondo Maddalena sarebbe addirittura il produttore delle leggi, di immischiarsi nelle faccende di somma importanza quali i trattati internazionali, come quelli istitutivi della Nato, dell’Unione europea, dell’euro, che non possono essere neppure oggetto di referendum (art. 76).
La nazione, il paese, il nostro paese, il popolo italiano, la nostra comunità politica: questo il soggetto chiamato in campo dalla “rottura” evocata da Cremaschi e dagli altri, con formule tratte pari pari dall’armamentario classico del nazionalismo, dello stalinismo (il fronte popolare) o da quello più slavato di Landini (l’esperienza coalizionale…). Formule rese subito elastiche, quanto al riferimento alle classi sociali e alle forze politiche con cui consorziarsi, da alcuni aggressivi interventi “anti-settari”, che hanno invocato a gran voce “la più vasta unità del popolo italiano“, e proposto con decisione la massima apertura ai cinquestelle. C’è chi, come Porcaro, si è spinto fino a dire: finiamola di aver paura del termine nazione, e/o interessi nazionali! E anche della bandiera sarà il caso di discutere. Di quella tricolore, beninteso. Qui si è fermato: il resto delle porcate, la prossima volta. Ha però anticipato il tema: se è vero che siamo stati sempre con Cuba e con il suo “patria e socialismo”, perché fare tanto gli schizzinosi con la nostra patria? Ed ecco, con un pessimo gioco di prestigio, messi sullo stesso piano, qualunque cosa si pensi del “socialismo” di Castro e Guevara, un paese dominato dall’imperialismo che si è battuto per decenni, a suo modo, contro il massimo degli imperialismi, e un paese come l’Italia, imperialista da un secolo e passa, che da solo o in varie e variabili alleanze imperialiste, aggredisce, bombarda, inquina altri paesi, super-sfruttando i proletari e i contadini di altri paesi in Est Europa, in Medio Oriente, America Latina, Africa in combutta col super-imperialismo yankee. Definitelo come volete: imperialismo straccione, a scartamento ridotto, di secondo rango rispetto alla Germania, ma sempre imperialismo – secondo i calcoli attendibili di J. Smith, all’ottavo posto nel mondo per la spremitura del lavoro fuori dalle proprie frontiere e anche, grosso modo, per il numero delle proprie missioni militari all’estero (se non come spesa bellica).
Dunque il 28 gennaio Eurostop ha iniziato a sdoganare apertamente, oltre al tema del recupero della sovranità nazionale, la difesa della patria. Cosa, del resto, inevitabile, data l’intima connessione tra i due temi. L’ha fatto, si capisce, da sinistra. Con tanto di formule fumose sull’Ital-exit gestita dal basso, sulla “rottura sociale”, i diritti democratici, le “città ribelli”, la “cittadinanza europea” (ma non volete uscire dall’UE?), la “questione sociale”, le nazionalizzazioni, etc. La sostanza di fondo però è: uscire dalla globalizzazione, o far regredire la globalizzazione, rompendo con euro e Unione europea, mettendosi in proprio come nazione, liberi dai lacci e lacciuoli di Bruxelles e Berlino. Per andare dove? Ovvio: per andare, anzi per restare, dove non si può non essere nel XXI secolo: nel mercato mondiale globalizzato. Poiché non si esce certo dal mercato mondiale cambiando la moneta o uscendo dall’Unione europea, ma solo – e peraltro in misura molto parziale – con la rottura rivoluzionaria del potere politico del capitale e l’avvio della trasformazione rivoluzionaria dei rapporti sociali capitalistici.
Promettere di ‘uscire dalla globalizzazione’, come fanno Cremaschi e le forze politiche e sindacali riunite in Eurostop, è una pura e semplice truffa. L’antesignana della rottura con la UE May, premier tory del Regno Unito, l’ha detto chiaro: vogliamo liberarci dai lacci UE per stare più di prima sul mercato globale, per starci come una potenza globale, per giocare da soli, in proprio, la nostra partita. ‘Uscire dalla globalizzazione’? Neanche se ne parla. Semmai starci ancora più a fondo dentro accentuando la propria competitività come nazione. Il che significa accentuando al massimo la competizione tra i proletari britannici, o che vivono nel Regno Unito, e i lavoratori di tutti gli altri paesi, e creando nel Regno Unito condizioni di maggior favore per la profittabilità del capitale e il suo rafforzamento. Un programma al 100% anti-proletario, pur se condito di grasse e falsissime promesse ai proletari britannici. Sulla stessa linea Tremonti, uno dei primi e più abili ad alimentare in Italia la “rivolta” anti-tedesca e anti-UE, a cui si accoda la sinistra “sovranista”: “Credo che nello spirito dei tempi e nell’andamento della storia si apra una fase sovranista, che non vuol dire chiudersi, ma difendere quello che hai e valorizzarlo sull’esterno“. Accrescere la competitività della nazione-Italia nel mondo, nella economia mondiale, anche attraverso misure di tipo mercantilistico e lo sganciamento dall’UE. Sganciarsi dai vincoli europei, liberarci dal “dominio di Germania e Francia” per valorizzare di più il capitale made in Italy “sull’esterno”, cioè nel mercato mondiale. Questa la prospettiva disegnata dalla destra più aggressiva di Salvini, Fratelli d’Italia, Tremonti e parte di Forza Italia, nonché dal vertice del partito-azienda Grillo-Casaleggio, indiscutibilmente di destra, e non a caso sodale dei tipi Farage, o no?
Eurostop propone un emendamento a questa prospettiva (contro cui, peraltro, non si sono sentite veementi critiche all’assemblea di Eurostop): sì allo sganciamento da euro e UE, proposto in tutta Europa da una parte delle destre, ma per ritornare al welfare e alla Costituzione attraverso un “nuovo sistema economico e politico, che non è ancora socialista, ma che non è più quello ordoliberista”. Rompere con l’UE e l’euro per “far avanzare di nuovo (?!) una democrazia fondata sulla eguaglianza sociale”. Quel “di nuovo” è tutto un programma, perché sottintende che già si avanzò un tempo in questa direzione sotto la guida della Costituzione, mentre gli unici avanzamenti che ci sono stati, sono stati il frutto delle lotte operaie e sociali. Lo è altrettanto il vaghissimo concetto di “eguaglianza sociale” che, se fosse preso alla lettera, significherebbe avanzare verso una società senza classi, senza proprietà né privata né statale dei mezzi di produzione, mentre in questo contesto significa tutt’altro: tornare indietro verso una meno diseguale ripartizione della ricchezza sociale capitalisticamente prodotta – che è il massimo degli obiettivi possibili, evidentemente, per Cremaschi&Co., per tutta una fase storica.

Non varrebbe la pena di perder tempo a mostrare quanto questa ‘via d’uscita progressista’ dai mali che affliggono oggi la classe lavoratrice, costituisca una truffa nella truffa, dal momento che la sola cosa che l’uscita dall’euro garantirebbe di sicuro è la svalutazione dei salari come effetto immediato della svalutazione della moneta e, perciò, l’intensificata pressione sui lavoratori per accrescere i propri orari di lavoro e la loro produttività. Non varrebbe la pena, se non fosse che tale ipotesi sta guadagnando strada tra i lavoratori, sempre più tentati, nella loro passività e, al momento, nella loro sfiducia in sé stessi come classe, da questa scorciatoia. Sempre più tentati dal dare il loro voto nelle prossime elezioni alle formazioni politiche che con più decisione ventilano l’uscita dall’euro.
A dire di Cremaschi nell’attuale stasi delle lotte c’è, però, una cosa interessante: il “rifiuto del sistema” e delle “sue élites” da parte delle “classi subalterne” che, per quanto contraddittorio e distorto, va raccolto e orientato in senso… sovranista “sociale”. Ora, è vero che c’è un crescente distacco e una crescente avversione di una consistente parte dei lavoratori salariati e dei precari nei confronti dell’élite politica e, solo in parte, di quella economica. Ma questo processo, invece che deviato in senso nazionalistico contro nemici esterni, andrebbe aiutato a radicalizzarsi su contenuti e obiettivi di classe contro il nemico che è ‘in casa nostra’, i capitalisti e il governo Gentiloni che comandano sulle nostre vite con il pieno sostegno dei poteri forti del capitale globale.
Per noi la vera rottura da operare è quella della passività, della pace sociale, con il ritorno alla lotta. Alla lotta di classe dispiegata contro i capitalisti e le compatibilità capitalistiche che, tanto dentro quanto fuori dall’euro e dall’UE, hanno soffocato i proletari negli scorsi decenni. Rilanciare la lotta di classe per consistenti aumenti di salario sganciati dalla produttività; per la riduzione generalizzata e drastica dell’orario di lavoro a parità di salario e senza contropartite; per l’azzeramento del debito di stato, che è un debito di classe esploso in Italia per decisione del nostro keynesiano Andreatta, con l’immancabile concorso del santone keynesiano-liberista Ciampi; per la riconquista dell’agibilità sui luoghi di lavoro; per il ritiro immediato di tutte le missioni militari del nostro imperialismo; per l’abolizione di tutta la legislazione contro gli immigrati; per la difesa intransigente, solidale dei piccoli settori di classe più attivi oggi duramente aggrediti (il pensiero non può che andare, qui ed ora, ai facchini della logistica); per la rinascita del movimento e dell’organizzazione di classe – questi, se ci si pone dal punto di vista degli interessi dei lavoratori, gli obiettivi da perseguire, questo il programma politico e sociale di lotta nell’immediato! Altro che scimmiottare da sinistra le parole d’ordine delle più reazionarie tra le destre europee!
È proprio a questo proposito il secondo aspetto parzialmente nuovo dell’assemblea del 28 gennaio. Nella quale, a iniziare dal documento preparatorio, Cremaschi&C. hanno messo nel mirino quanti si rifiutano di sposare il loro nazionalismo sociale. “Altre forze (…) rifiutano di accodarsi alle social-democrazie, ma fuggono dalla realtà della politica rifugiandosi nella predicazione della rivoluzione  mondiale come unica soluzione. Questa fuga nella palingenesi totale a volte poi copre opportunismi molto concreti nella pratica”. Più tranchant e irrisorio ancora è stato l’ex-sindacalista della Cgil nel suo intervento, quando si è detto stufo della critica di nazionalismo alla prospettiva di uscita dall’UE proponendo di distribuire a questa genìa di critici internazionalisti 1000 orologi per tutta Europa, così da sincronizzare il momento x dell’assalto simultaneo al potere.
Non saremo noi a negare che esistono, purtroppo, internazionalisti platonici che, materialmente e psicologicamente fuori dai processi di lotta reali, si limitano a ripetere in modo macchinale formule tanto ultimative quanto astratte perché collocate sul puro piano dei principi. Ma neghiamo nel modo più deciso che un simile modo di (fra)intendere l’internazionalismo proletario appartenga a tutti i militanti e gli organismi che respingono la ricetta di Eurostop e dintorni come disastrosa forma di nazionalismo. Per quanto ci riguarda, non proponiamo certo di attendere l’ora x sincronizzata per tutta l’Europa, che è evidentemente la più facile delle battutacce. Pensiamo a un nuovo ciclo rivoluzionario, dentro e fuori l’Europa, che è tutt’altra cosa, e lavoriamo in vista di esso. Ci sembra angusto l’orizzonte europeo entro cui i Cremaschi pretendono di rinchiudere eurocentricamente la lotta tra le classi, che peraltro sempre più subordinano alla lotta tra nazioni. La nostra convinzione è di essere ad uno svolto storico del capitale globale, ad una crisi storica di inaudita profondità del sistema sociale capitalistico che, spazzando via ogni illusione di ‘terze vie’ keynesiane-progressiste e di ‘pacifica competizione’ tra le nazioni, impone un aut-aut globale radicale, ben rappresentato dall’ascesa di Trump e dal contemporaneo riaccendersi delle tensioni sociali negli Stati Uniti: o un durissimo scontro tra nazioni imperialiste e capitaliste sulla pelle degli sfruttati di tutto il mondo, per ridefinire i rapporti di forza tra esse, e soprattutto per ricostituire le condizioni della massima profittabilità per il capitale; o un altrettanto duro, epocale scontro degli sfruttati di tutto il mondo contro i propri sfruttatori, contro il sistema sociale del capitale globale, per il suo rovesciamento; un rovesciamento richiesto a gran voce anche da madre natura, stufa di essere brutalmente violata e saccheggiata (a cui la pur incoerente Naomi Klein ha saputo attribuire una formula esatta: “Solo una rivoluzione ci salverà”).
Questo scontro è già iniziato, alla scala internazionale. Potremmo fare qui un lungo elenco di lotte ‘settoriali’ degli sfruttati già capaci di darsi una dimensione internazionale a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, dallo sciopero statunitense/europeo all’UPS allo sciopero dei porti suscitato dalla lotta di Liverpool, alle lotte di ‘Via campesina’; o di lotte che, pur localizzate in una nazione, hanno avuto un’evidente valenza internazionale, a cominciare dal formidabile 1° maggio 2006 negli Stati Uniti, sciopero generale dei lavoratori immigrati, con milioni di proletari e giovani di tutte le nazionalità in piazza!, per proseguire con la miriade di scioperi del giovane proletariato industriale cinese delle zone speciali contro le grandi multinazionali (e non solo); e arrivare alle sollevazioni di massa del mondo arabo del 2011-2012, lasciate criminalmente sole dai militanti europei concentrati sul proprio ombelico e avvelenati dall’arabofobìa e dall’islamofobìa. Tutti questi processi indicano, a chi ha gli occhi per vedere, che alla globalizzazione del capitale i settori più vivi e avanzati delle classi lavoratrici e dei movimenti di lotta – pensiamo anche al rinascente movimento delle donne – avvertono la necessità di contrapporre non l’impossibile, e bancarottiera, fuga dalla globalizzazione, bensì la globalizzazione delle lotte e dell’organizzazione di classe. Di questi processi, e soprattutto del loro significato d’insieme, della prospettiva che essi delineano, certo in modo ancora fragile, non vi è stata la minima traccia nell’assemblea di Eurostop, in tutt’altre faccende affaccendata. E una tale indifferenza verso gli straordinari sforzi di lotta dei proletari, degli sfruttati, dei movimenti che hanno l’epicentro lontano dall’Italia, costituisce un aiuto al loro isolamento.
Così come, passando dal macro al micro, dal mondo all’Italia, tutte le forze assemblate in Eurostop stanno dando il loro contributo a isolare le lotte del SI-Cobas in un momento di dura repressione statale su di esse: nell’assemblea di Eurostop, che è stata così calorosa con un anziano magistrato, c’è stata solo una compagna di numero che ha proposto un odg di solidarietà al SI-Cobas contro la squallida montatura di polizia e magistratura ai danni del compagno Aldo Milani, ma è stata totalmente ignorata da quanti erano lì per la famosa “rottura”. Indicativo, no?
Siamo ben consapevoli che la nostra proposta politica classista e internazionalista mirata allo zenith, oggi lontano, della rivoluzione sociale, richiederà tempo, e un immane sforzo di lavoro teorico, politico, organizzativo. Ma questa è la sfida che ci pone lo scenario globale e locale sempre più drammatico di un capitalismo alle prese con una crisi dell’accumulazione che non riesce a risolvere, e che si sta trasformando in una crisi di legittimità dell’intero sistema sociale capitalistico. La sfida è radicale. Ricorda per certi versi il contesto di inizio ventesimo secolo, ma con forze in campo di moltiplicata potenza, anche sul nostro versante. Il mondo di inizio ventunesimo secolo, segnato una catena di catastrofi economiche e belliche, è gravido di sviluppi rivoluzionari, che pongono, su tutti i piani, una alternativa tra sistemi sociali antagonisti, capitalismo e socialismo, alla scala globale. Con le loro trombonate pro-Costituzione, pro-Keynes, pro-sovranità nazionale, Eurostop e i suoi futuri alleati-domini, ben rappresentati dal giudice Maddalena, credono di potervi sfuggire con il proporre un vacuo, impotente ritorno all’indietro, che costituisce una vera e propria fuga dalla realtà dell’economia, e anche della politica, mondiale e nazionale. Da un lato. E dall’altro con una immersione nel livello più imputridito e logoro della politica, la dimensione nazionalistica e elettoralistica di essa – poiché pure di elezioni si è parlato, naturalmente. Chi per dire che è un po’ presto per presentarsi, specie se i tempi sono quelli del rolex di Renzi; chi per rimarcare la necessità di dare appoggio ai cinquestelle (indicativa in proposito, la timidezza, quasi la paura, con cui l’ex-senatrice di Rifondazione Palermi, oggi esponente del Pdci, ha obiettato in modo sommesso, quasi bisbigliando: non vi pare che la vostra simpatia per la ditta Grillo&Casaleggio sia esagerata?). Un appoggio che l’USB e altri organismi presenti all’assemblea hanno già abbondantemente operato negli anni e nei mesi passati. E di nuovo si ri-preparano a operare senza vergogna.
Qui alla fine, tanto per cambiare, precipita tutto. La prospettiva politica di Eurostop devia così su una falsa pista quel poco, o pochissimo, che si muove oggi nella classe lavoratrice. E contribuisce a immobilizzarlo iniettandogli in corpo un veleno paralizzante e altamente nocivo, ed esponendo così i lavoratori ancor più impreparati e indeboliti di oggi ai nuovi violentissimi attacchi in arrivo. Alla faccia del realismo dei piccoli passi…
Agli internazionalisti militanti, non platonici, coscienti delle dimensioni strategiche e tattiche che l’internazionalismo rivoluzionario deve avere; e soprattutto ai giovani compagni e militanti di movimento con dentro un sentimento internazionalista o anche solo un sano ripudio di ogni forma di nazionalismo ‘italiano’, un caldo invito a darsi una mossa. Altrimenti il nazionalismo “sociale” di sinistra, che è già in campo e abbastanza strutturato, continuerà a produrre indisturbato i suoi danni, moltiplicando quelli, già profondi, causati dalle destre. Sveglia! C’è tanto lavoro da fare, per tanti! E sarà decisamente più entusiasmante che lucidare un ferrovecchio irrimediabilmente arrugginito come la nazione.
Marghera, 11 febbraio 2017
La redazione de “il cuneo rosso” –  com.internazionalista@gmail.com


La risposta di Cremaschi

Cari compagni comunisti internazionalisti,
vi ringrazio per la cortesia di avermi inviato la vostra critica alle mie posizioni e a quelle di Eurostop, critica che mi era già stata fatta pervenire da alcuni compagni a cui giro questa mail. Alcune delle vostre considerazioni meriterebbero una risposta approfondita, però per procedere ad essa avrei bisogno di un chiarimento, onde non correre il rischio di travisare la vostra posizione.
In sintesi, voi su Euro, UE, NATO siete per il SI, per il NO, o per astenervi dall'esprimere una scelta che considerate irrilevante? Siccome dal vostro testo questo non si capisce gradirei una risposta. Intanto vi ringrazio per l'interlocuzione e vi saluto.
Giorgio Cremaschi
* * * *

La replica di Il cuneo rosso

Caro compagno Cremaschi,
non essendo tu alle prime armi, comprenderai facilmente che la tua domanda suona provocatoria alle nostre orecchie. In particolare è scontato che non abbiamo nulla da dire sul sì, il no o l'astensione sulla NATO: stavi scherzando, vero? O forse un problema c'è, ed è da porre non a noi, ma a voi di Eurostop: programmate per caso di uscire dalla NATO per via elettorale? 
In ogni caso, ti rispondiamo nel merito della vera questione su cui si è incentrata l'assemblea di Eurostop: l'uscita volontaria dall'UE e dall'euro come via obbligata per recuperare sovranità nazionale e ritornare alle politiche keynesiane e alla Costituzione.
Come saprai, non siete i primi in Europa a formulare questa proposta e indicare questa prospettiva da sinistra - per quel che riguarda la destra, invece, non se ne parla neppure perché, sebbene con differenti obiettivi, è proprio a destra che questa proposta è nata, ed è stata la destra di Farage e dei conservatori britannici a portarla per prima alla vittoria. Alle forze di sinistra che si sono mosse per prime e con più nettezza in questa direzione (pensiamo a settori di Izquierda Unida) abbiamo risposto nel n. 2 della rivista con un testo che trovi in allegato, che contiene un ragionamento più ampio di queste rapide note di risposta.
L'UE è, per noi, il punto di arrivo di un lungo e ampio processo commerciale, industriale, istituzionale, culturale e anche, per certi versi, popolare, iniziato negli anni '50 del secolo scorso che ha avuto, e ha, per oggetto e scopo la costruzione di un polo imperialista autonomo, concorrenziale da un lato con gli Stati Uniti, dall'altro con i 'giovani capitalismi' emergenti. L'euro è la sua moneta. E ha dovuto essere partorita, ad un certo punto di questo processo 'unitario', per porsi all'altezza delle sfide del capitalismo globalizzato, e limitare lo strapotere del dollaro nelle transazioni internazionali, rafforzando nel contempo l'Europa anche nel Sud del mondo (contro gli sfruttati del Sud del mondo). La sua funzione, quindi, è triplice: anti-americana, anti-Sud del mondo, anti-proletaria. 
All'interno della UE e nell'ente che governa l'euro, come all'interno di ogni consorzio imperialista,  non ci sono relazioni paritarie. C'è un maggior potere della Germania o, nella misura in cui questo asse esiste realmente, dell'asse franco-tedesco rispetto agli altri paesi. Ma in nessun modo i rapporti tra Germania (e asse franco-tedesco) e Italia, tra "capitalismo renano" e capitalismo made in Italy, può essere configurato come rapporto tra metropoli e colonia. Il capitale di 'casa nostra' è stato co-protagonista della costruzione dell'UE e della nascita dell'euro nel suo proprio interesse, dando non a caso agli organi di governo europei suoi funzionari di primo livello (Prodi, Monti, Draghi, etc.). La 'cessione di sovranità' in favore delle istituzioni europee (e in primo luogo della BCE, presieduta da un italiano) di cui tanto si parla nel vostro ambito, è avvenuta da parte di tutti i paesi partner, Germania compresa. Ed è avvenuta per favorire la costruzione di una entità (UE/euro) che abbia sul mercato mondiale una forza maggiore di quella dei singoli stati/"capitalismi nazionali" europei, e faccia in questo modo da efficace scudo allo strapotere della vecchia superpotenza e della vertiginosa ascesa del giovane colosso Cina.

Di conseguenza è evidente che le istituzioni europee sono le istituzioni della classe nemica dei lavoratori, ma è altrettanto evidente, per noi, che lo sono nello strettissimo intreccio con le istituzioni nazionali del capitale (governo, parlamento, apparati statali, Bankitalia, etc.) e i poteri forti nostrani dell'economia e della finanza. Per fare solo un esempio: il Fiscal Compact non è stato imposto all'Italia o ad altri stati da un potere estraneo, straniero, che "ci" comanda come nazione. È stato deliberato contro i lavoratori di tutta l'Europa - nessun paese escluso - da un direttorio di cui fanno parte integrante tutte le borghesie; un direttorio di cui la borghesia italiana è parte di primo rilievo.

Ecco perché è fuorviante, rispetto agli interessi di classe, la vostra prospettiva di una "rottura" che "punta alla sovranità democratica e popolare del nostro paese". Perché le politiche degli ultimi decenni non ci sono state dettate da un potere straniero, ma sono state adottate o co-adottate dalla "nostra" classe dominante, a partire dalla fondamentale e famigerata decisione presa nel 1981 dal keynesiano Andreatta e dal suo compare semi-keynesiano Ciampi, che in dieci anni ha fatto raddoppiare il debito di stato, mettendoci un terribile cappio al collo.  
Non è il "nostro paese" che ha perso libertà e libertà di movimento, come affermate nel vostro documento; è la classe dei lavoratori salariati, in tutte le sue articolazioni, che l'ha persa, e per decisioni anzitutto interne o volute e approvate anche dall'interno (salvo, poi, data la loro impopolarità, preferire presentarle, in modo demagogico, come decisioni imposte dall'esterno). I lavoratori questa (limitata) libertà di movimento l'hanno persa, e perfino in anticipo per certi versi, anche in Germania, cosa di cui non si parla quasi mai. L'hanno persa grazie all'Agenda 2010 e all'Hartz 4, a seguito di decisioni prese da governi nazionali socialdemocratici e poi, ovviamente, consolidate e convalidate da decisioni degli organismi europei.

L'idea che Eurostop veicola, sia nelle versioni più ambigue, sia in quelle più sguaiate, è invece tutt'altra. E non è un caso che l'applauditissimo Maddalena abbia parlato di "traditori della patria" - è questo il sentire che circolava nella vostra assemblea. Ed è un sentire che, al pari della vostra analisi e della vostra prospettiva di uscita dalla crisi, è di tipo nazionalista, anche se condito di tanti fiori e fioretti 'progressisti' e sociali.
Quindi: la denuncia dei poteri europei, delle istituzioni dell'imperialismo europeo (nella misura in cui esiste come unità) è ovviamente anche nostra, ma non può e non deve sostituire quella dei poteri nazionali. Deve affiancarsi ad essa (in subordine), perché restiamo fermi alla vecchia consegna, sacrosantissima, che in un paese imperialista quale l'Italia è, il principale nemico è all'interno, e non all'esterno. Non ci sfugge che l'Italia conta meno della Germania e della Francia nelle decisioni UE, ma questa circostanza non deve in nessun modo farci dimenticare, o mettere in secondo piano, lo statuto imperialista del 'nostro' stato, del 'nostro' governo, del 'nostro' paese. O il nostro obiettivo dovrebbe essere che l'Italia conti di più, mettendosi in proprio, o alla testa di paesi di minore, o molto minore, forza rispetto ai quali essere la Germania del Sud Europa?
Per noi, i lavoratori di tutti i paesi europei, in misura certamente differenziata ma al tempo stesso comune, stanno soffrendo dentro l'euro e dentro l'Unione per le politiche anti-proletarie dei propri governi, delle istituzioni europee, di Bce e Fmi. Soffrono perché l'UE, come i governi nazionali che la compongono, applica rigidamente le regole della competizione internazionale, del mercato mondiale, del capitale globale, a cui sono sottoposti anche i paesi che sono fuori dall'UE e dall'euro - a cominciare dal più potente di tutti, gli Stati Uniti, nei quali il lavoro è sempre più low cost e a zero diritti!
Ecco perché, per noi, l'alternativa tra "morire per l'euro" o "sfasciare l'euro" è un'alternativa tra due soluzioni entrambe capitalistiche e di impronta nazionalista, la prima per la super-nazione Europa, l'altra per il rispristino della presunta maggiore autonomia delle singole nazioni. Nè l'una né l'altra di queste soluzioni corrisponde agli interessi strategici e tattici dei lavoratori. Non è a caso, del resto, che nel Regno Unito alla testa di entrambi gli schieramenti 'contrapposti' sulla Brexit c'erano esponenti ultra-borghesi del partito conservatore, mentre i laburisti e gli extra-parlamentari, con pochissime eccezioni, erano alla loro coda, in entrambi gli schieramenti. E questa scena davvero magnifica si ripeterebbe in Italia...
Rifiutiamo questa falsa - e rovinosa - alternativa, e ad essa contrapponiamo la prospettiva della lotta comune tra i lavoratori del Sud, dell'Est e del Nord dell'Europa alle politiche anti-proletarie dei loro governi e delle istituzioni comunitarie, Bce in testa. Siamo convinti che ci sono fondamentali obiettivi comuni da perseguire ovunque con la lotta. Contro le politiche di 'austerità'. Contro il debito di stato, per il suo annullamento. Contro il Fiscal Compact. Contro il taglio dei salari, diretti e indiretti, la disoccupazione, la precarietà, l'allungamento degli orari di lavoro, l'intensificazione del lavoro, la distruzione dei contratti nazionali di lavoro e della organizzazione operaia nei luogi di lavoro. Contro il risorgente militarismo europeo e la Nato. Contro lo sfruttamento differenziale, le bestiali discriminazioni, il razzismo di stato e fascistoide nei confronti dei lavoratori immigrati. Su questi terreni, nella lotta, i lavoratori delle diverse nazioni possono avvicinarsi e darsi forza a vicenda.
Non ci nascondiamo affatto le difficoltà di mettere in atto questa prospettiva politica che punta alla rinascita del movimento proletario e alla accumulazione delle forze di classe in vista dei grandi scontri di classe in arrivo.
L'abbiamo già accennato: esiste nell'Unione europea una polarizzazione territoriale tra capitali che si ripercuote sulle condizioni di esistenza e di lavoro dei salariati e sugli indici di disoccupazione e di povertà. I colpi subìti dai proletari dell'Est Europa sono più violenti di quelli subìti dai proletari dei PIIGS. All'interno stesso dei PIIGS i colpi subìti dai proletari e dai giovani greci sono più violenti di quelli abbattutisi sui proletari e i giovani italiani. I colpi subìti dai proletari dei PIIGS sono in media più violenti di quelli subìti dai proletari tedeschi o olandesi. Ma consideriamo puro veleno anti-proletario quello spirito anti-tedesco così diffuso nella sinistra, anche "radicale", che serve esclusivamente a rafforzare le distanze, l'estraneità e la contrapposizione tra i proletari e le proletarie del Nord e del Sud dell'Europa. E che è l'altra faccia della propaganda sciovinista tipica dei mass media e dei governanti del Nord Europa secondo cui nel Sud dell'Europa non si farebbe altro che prendere il sole mangiando a sbafo dello stato e dell'Europa-che-lavora.
C'è una stratificazione materiale storica dentro il proletariato europeo che ha prodotto stratificazioni ideologiche e psicologiche profonde. Ma proprio perché questo problema è reale, ci vuole a nostro avviso il massimo dell'impegno nel tessere i fili unitari dentro il nostro campo di classe, rifuggendo da tutte le soluzioni apparentemente facili che, invece, approfondiscono le distanze già di per sé, allo stato attuale, ampie e pericolose. È estremamente arduo far sentire ai proletari italiani le lotte che si sviluppano in altri paesi come lotte integralmente nostre (l'abbiamo visto di recente anche con le accese lotte avvenute in Francia), ma questo ci tocca fare se crediamo, e noi lo crediamo, che non c'è soluzione nazionale possibile a questa crisi storica del sistema sociale capitalistico. E che all'interno del capitalismo globalizzato, dentro o fuori l'Unione europea e l'euro, non può esserci altro che l'accentuazione della concorrenza e la guerra fratricida tra proletari.
Significa questo che siamo per restare a tutti i costi nell'euro?
La sola domanda è assurda.
Sempre nel n. 2 del 'Cuneo rosso' abbiamo ragionato sulle vicende greche (il movimento proletario in Grecia si è mosso per primo in Europa), e l'abbiamo fatto nel seguente modo :
«Se in Grecia o in un altro paese il movimento proletario e popolare diventerà così forte da imporre al "proprio" governo nazionale misure di politica economica e sociale ritenute incompatibili dai poteri forti che dettano legge in Europa perché antagoniste agli interessi del capitale; e tanto più se in Grecia o altrove la classe lavoratrice acquisterà tanta forza e autonomia politica da prendere il potere per sé, annullare i diktat europei, decidere misure di emergenza a tutela dei salariati, adottare misure coercitive contro le forze del capitale interne, possiamo dare pressoché per certo che tra le misure di ritorsione di Bruxelles e della Bce ci sarebbe la minaccia o la decisione di espulsione dall'euro e dall'Unione, nel tentativo di circoscrivere e stroncare l'effetto-contagio della ribellione proletaria e popolare. Ma una simile cacciata dall'euro avverrebbe in un contesto di scontro di classe infuocato in cui una tale decisione degli odiati super-poteri europei potrebbe diventare, per il suo evidente segno di classe, un boomerang che si ritorce contro chi l'ha lanciato. E la resistenza alle sue conseguenze, in Grecia o altrove, unita ad un appello alla solidarietà dei lavoratori degli altri paesi, assumerebbe una valenza internazionalista. Rispetto all'uscita volontaria dall'euro degli Anguita [esponente di Izquierda Unida] di tutta Europa sostanziata di interessi nazionali [e di logiche nazionaliste], sarebbe davvero un'altra storia...».
Quindi, come vedi, la polemica che hai ritenuto di fare sugli orologi e sull'aspettare/non aspettare manca completamente il bersaglio. Almeno per quello che riguarda noi e i compagni  che si muovono secondo questa logica politica. Troppo facile liquidare l'internazionalismo come se fosse un infantile simultaneismo. Il problema vero non è se ci sarà 'qualcuno', ovvero i lavoratori di un dato paese, che comincerà per primo; questo è ovvio, perfino banale. I problemi veri sono due:
1) cominciare per primi, su che basi e per andare dove?;
2) dare la massima solidarietà a chi ha cominciato per primo, e su una linea internazionalista.
Voi proponete di cominciare ad uscire dalla globalizzazione, o a far retrocedere la globalizzazione. Questa prospettiva, abbiamo già spiegato il perché, è una truffa. Ed è anche una deviazione di percorso da quella che è per noi una prospettiva di classe, perché voi proponete per il 'nostro paese' nel suo insieme, per il popolo, per la comunità nazionale, etc., etc., una via di recupero dell'autonomia nazionale che, a vostro dire, risulterebbe vantaggiosa anche per i lavoratori. Questa prospettiva, al contrario, dividerebbe ulteriormente il campo dei lavoratori tanto alla scala europea che a quella interna, anzitutto tra lavoratori nazionali e lavoratori 'non nazionali'. Non a caso nella vostra assemblea si è sentita almeno una voce esplicita contro gli immigrati, e poi qualche accenno finalizzato a rassicurare gli immigrati; ma sta di fatto che una messa in proprio dell'Italia su basi "sovraniste", cioè nazionaliste, non potrebbe che avere una valenza anti-"stranieri" (l'abbiamo già visto con la Brexit, che ha messo nel suo mirino, almeno propagandisticamente, anche gli immigrati da altri paesi dell'UE). Perché vi sembra strana e da respingere la critica di nazionalismo?
Il vostro ragionamento pecca inoltre di angustia eurocentrica, è chiuso dentro l'Europa. Dopo lo scoppio della crisi del 2008, chi ha dato un grosso scossone all'ordine capitalistico internazionale sono state le sollevazioni arabe del 2011-2012 - che solidarietà hanno avuto qui? Se non sbagliamo, alcuni dei presenti alla vostra assemblea sono andati in Siria a congratularsi con uno dei poteri statali che hanno schiacciato nel sangue queste sollevazioni di sfruttati. L'hanno fatto forse per internazionalismo, per dare una mano a chi si era mosso per primo? La stessa domanda si potrebbe fare per le strenue lotte dei lavoratori e dei giovani greci, che hanno avuto qui un'eco scarsissima. Eppure avevano cominciato loro per primi...
Secondo noi, bisogna invece lavorare a fondo per potenziare i primi contatti, circuiti e solidarietà, di ordine sindacale e politico, che già ci sono, non nella direzione opposta.
Infine un'osservazione non marginale sul rapporto tra la lotta economica e la lotta politica. Anche tu registri che, al momento, c'è una passività sociale dei lavoratori. A nostro avviso, questa passività non può essere aggirata da nessuna furbizia 'politica' (o politico-elettorale). O i lavoratori tornano prepotentemente alla lotta, alla lotta su larga scala, alla lotta economica e politica insieme e indissolubilmente (la lotta contro i brutali livelli raggiunti nel supersfruttamento del lavoro e per la auto-organizzazione nei luoghi di lavoro, la lotta alla repressione, al razzismo anti-immigrati, al militarismo, etc.), o sono destinati a essere carne da macello nella competizione sul mercato globale, sia esso globalizzato o segmentato, e nelle guerre a venire. La simpatia che molti operai e lavoratori sentono per l'ipotesi dell'uscita dall'euro formulata dal duo Salvini&Grillo, deriva proprio dalla loro passività sociale, dal fatto che da molti anni stanno subendo sui luoghi di lavoro l'offensiva padronale senza riuscire a dare risposte di lotta apprezzabili. Il loro ragionamento ci è noto: "visto che le altre soluzioni non ci hanno dato risultati, proviamo anche questi, proviamo anche questa strada". Dietro c'è ancora una volta un'attitudine di delega (elettorale) e un sentimento di impotenza, che può essere vinto solo ed esclusivamente con il ritorno alla lotta di classe vera.
Ciò detto, ti salutiamo
Marghera, 19 febbraio 2017
La redazione de "il cuneo rosso"